Sono tra noi, costituiscono la maggioranza della popolazione migrante presente in Italia, ma non ce ne rendiamo conto, non abbiamo questa percezione. Eppure rispondono a un nostro bisogno, suppliscono a una mancanza di welfare. Sono tra noi, ma non le vediamo. Una volta sbarcate sulle coste italiche spariscono dai media e anche dai nostri pensieri. Sono le donne il vero volto invisibile del fenomeno migratorio che interessa l'Italia
Vi siete mai domandati come mai non abbiamo la percezione che nel nostro Paese la maggioranza della popolazione straniera residente è (seppur di pochi punti percentuali) femminile? Anche se oramai lo è da diversi anni. Secondo il Dossier statistico immigrazione, pubblicato a fine ottobre dal Centro studi e ricerche Idos, nel 2015 le migranti presenti nel nostro Belpaese erano il 52,6% del totale dei non italiani.
I loro volti, se si scorrono le righe del testo che ogni anno ci regala una fotografia importante della nostra società, non sono difficili da immaginare. È sufficiente soffermarsi sulle provenienze indicate con accanto le percentuali di presenza: ucraine, rumene, filippine e moldave. In tutte queste nazionalità le donne sono prevalenti rispetto al numero degli uomini.
E non occorre pensarci molto per capire il perché. La motivazione non è difficile da indovinare: suppliscono alla mancanza di un welfare statale, fornendo una soluzione a basso costo (spesso non regolarizzata) alla domanda di cura delle persone anziane o con disabilità che vivono in contesti familiari.
Per questo hanno subìto meno, rispetto all’occupazione maschile, gli effetti della crisi economica. Perché le donne migranti presenti in Italia rispondono a un’esigenza reale. Una nostra domanda di necessità. La conferma la si ha dalle cifre: se il numero delle collaboratrici domestiche è (questo certo per effetto della crisi) diminuito rispetto all’anno precedente (il 2014), continua invece ad aumentare senza mai arrestarsi quello delle assistenti familiari per anziani.
Un dato non nuovo, che ci costringe a rilevare (ancora una volta) come questo welfare familistico abbia creato una «segregazione delle immigrate nelle posizioni più basse e meno qualificate della struttura occupazionale, in settori in cui le condizioni di impiego non sono sempre le migliori ed è diffuso il lavoro irregolare».
A oggi, stando ai dati dell’Inps, a occuparsi dei nostri cari sono per il 74,7% donne straniere: oltre 672mila su poco più di 886mila. E ci si riferisce con questi numeri a coloro che, tra collaboratrici domestiche (le cosiddette colf) e assistenti familiari (meglio note come badanti), sono in regola con i contratti. Ma, secondo l’Istituto previdenziale, le lavoratrici irregolari eguaglierebbero per numero quelle con contratto. Verrebbe da domandarsi: chissà cosa accadrebbe a questa Italia se d’improvviso scomparissero tutte…
Rifugiate e richiedenti asilo
Un altro volto della migrazione femminile di cui poco si parla, ma che sempre più spesso vediamo nei media, è quello delle donne rifugiate e richiedenti asilo. Oramai consolidata presenza, che ovviamente pone il nostro Paese davanti a una specificità di genere della migrazione, specificità che finora non ha avuto risposte da parte dello Stato. Non si tiene conto come questo fenomeno ponga e imponga delle questioni delicate sulla maggiore vulnerabilità delle donne che intraprendono il viaggio verso l’Europa. Manca del tutto una prospettiva di genere, un percorso che definisca misure volte a tutelare queste donne, il loro vissuto e il loro equilibrio fisico ed emotivo.
Il viaggio delle donne migranti non è solo la difficile traversata sul barcone. C’è un prima, che riguarda i Paesi di origine e di transito, e purtroppo un dopo, che invece interessa il nostro civile Paese d’approdo. E se del prima ogni tanto (raramente) sentiamo parlare (gli stupri durante il viaggio, la compravendita delle donne, il loro essere costrette nelle case chiuse libiche, le gravidanze frutto delle violenze), del dopo, segnato dal loro arrivo in terra italiana, sappiamo quasi niente.
L’arbitrarietà che abita alcuni Cie (Centri di identificazione ed espulsione) e Cara (Centri accoglienza richiedenti asilo) viene periodicamente alla luce grazie a qualche inchiesta giornalistica (l’ultima, quella di Fabrizio Gatti pubblicata a settembre sul settimanale l’Espresso) o a qualche report di associazioni (Medu, Amnesty International, LasciateCIEntrare, ecc.). E quel che accade in alcuni di questi contesti alle donne migranti, spesso già segnate da esperienze terrificanti durante il viaggio, segna purtroppo una continuità intollerabile tra il prima e il dopo del loro arrivo in Italia.
Un contributo importante per far luce in questo mondo femminile invisibile e abbandonato a sé stesso è la ricerca dell’antropologa Barbara Pinelli, esperta di prospettiva di genere e impegnata dal 2008 in un lavoro etnografico sulle rifugiate presenti in Italia. È il suo report a mettere in luce come, in diverse strutture di accoglienza nel Nord Italia e in vari Cara in Sicilia, si registrino criticità dovute non solo a forme di violenza sessuale, causate dalla promiscuità degli spazi, spesso condivisi con uomini, ma anche a sopraffazioni sociali e istituzionali.
di Jessica Cugini
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