Infibulazione alle figlie, “condannata perché la propria cultura non può giustificare”

da | Ott 19, 2021 | Testimonianze e contributi

di Simona Lorenzetti

La Cassazione respinge il ricorso di una donna egiziana che aveva sottoposto alla pratica le bambine di 6 e 9 anni. La poca istruzione, la scarsa integrazione nel contesto sociale italiano, la “mancata sanzionabilità delle pratiche di mutilazione genitale” nel Paese d'origine e “la millenaria “cultura” di queste presenti in Egitto” non sono elementi che possano giustificare un reato grave come sottoporre a infibulazione le proprie figlie. Per questo motivo la Cassazione ha respinto il ricorso di una donna egiziana condannata a Torino per aver costretto le figlie di sei e nove anni a subire una pratica così violenta e disumana.

I fatti risalgono all'estate del 2007, quando la donna durante le vacanze nel proprio Paese di origine lascia che le bambine vengano mutilate. Il caso viene alla luce qualche mese dopo il rientro in Italia e la madre finisce sul banco degli imputati: i magistrati l'accusano di “pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili”, reato entrato in vigore nel nostro Paese nel 2006. Nel corso del processo emerge come la donna parlasse poco l'italiano e non si fosse integrata nella nostra cultura. Non solo, gli avvocati difensori evidenziano la bassa scolarizzazione dell'imputata oltre al fatto che in Egitto la pratica sia ampiamente diffusa e tollerata, tanto che lei stessa l'aveva subita da bambina. Argomentazioni che non hanno convinto i giudici di primo e secondo grado e ora neanche quelli della Cassazione, che hanno respinto il ricorso.

Si legge nella sentenza: “Giustificazioni fondate sulla circostanza che l'agente per la cultura mutuata dal proprio Paese d'origine sia portatore di diverse concezioni dei rapporti di famiglia non assumono rilievo, in quanto la difesa delle proprie tradizioni deve considerarsi recessiva rispetto alla tutela di beni giuridici che costituiscono espressione di un diritto fondamentale dell'individuo”. In sostanza, prevale “il principio della centralità della persona umana”, l'unico “in grado di armonizzare le culture individuali rispondenti a tradizioni diverse e di consentire quindi l'instaurazione di una società civile multietnica”.

Infine, gli Ermellini sottolineano come i giudici di merito abbiamo insistito sul fatto che l'imputata fosse a conoscenza del carattere deprecabile dell'infibulazione. E questo proprio perché la donna aveva deciso di sottoporre le figlie all'intervento nel proprio Paese d'origine, l'Egitto: Stato in cui “la tradizionale pratica, nel 2007, era posta in discussione nell'opinione pubblica”, tanto da essere poi vietata un anno dopo, nel 2008. Da qui la conferma della condanna e del risarcimento alle figlie.

Corriere della Sera, 18 ottobre 2021