La differenza dietro le sbarre

da | Gen 17, 2017 | L'opinione

di Letizia Paolozzi

Lo stato, la vita umana, la violenza, l’indifferenza, la morte, la giustizia, il diritto, la colpa, la pena. Ne parlano tre film, diversi tra loro per tempi e luoghi in cui sono stati girati e soprattutto per gli interrogativi che rimbalzano dall’uno all’altro.
Tuttavia, a me i film hanno suscitato un interrogativo che può apparire bizzarro: in quale maniera si manifesta la differenza di questi uomini e queste donne che hanno frequentato il male?

Provo a estrapolare intanto da Caterina Gerardi e dal suo Nella Casa di Borgo San Nicola, tratto da un’indagine di Sandra del Bene, Caterina Gerardi, Rosamaria Francavilla (diventato poi un libro per le Edizioni Pensa MultiMedia).
Caterina è fotografa sensibile. Nel raccogliere le aspirazioni e disperazioni delle detenute nella Sezione dell’Alta Sicurezza, accusate di reati legati al traffico o allo spaccio di sostanze stupefacenti, associazione, complicità con elementi legati alla malavita organizzata (Sacra corona unita), mette in scena mogli, sorelle, figlie di uomini già sottoposti a regime carcerario.
Spesso, ma non sempre “il perché mi sono trovata in questa situazione” restituisce storie di miseria, senza possibilità di trasformazione. Crescere in un luogo poverissimo equivale a considerare la droga lo strumento per esistere. Per sopravvivere.
Dietro i cancelli di ferro, il tempo scorre vuoto. “Viviamo in attesa della posta”. La libertà – quell’allungare le braccia fuori dalle inferriate – significa ricucire legami strappati. “Mettiamo per assurdo che io abbia sbagliato; mio figlio però non ha sbagliato. Eppure, non me lo lasciano vedere”.
Il carico di negatività dell’esistenza viene scaricato sull’istituzione: “La legge con noi è ingiusta”. Mica pretendono un trattamento speciale per via del loro sesso; unicamente, che la pena sia commisurata al reato compiuto. ”Non giudicatemi in quanto moglie, sorella, figlia di ….”.
Ma qui si annida la contraddizione con il convincimento che la punizione gli sia stata inflitta perché si sono rifiutate di “tradire” l’uomo amato. Speciale eroismo per un sentimento speciale. D’altronde, se quel boss “mi ha scelta”, mi conferisce identità; dimostra la mia superiorità sulle altre donne.
Qualcuna, sfrontata, comincia a rivendicare il gusto del comando. Passerà qualche tempo (il film Caterina Gerardi l’ha girato nel 2008) e nei reati di criminalità organizzata la parità con gli uomini conduce tante ad assumere il ruolo del compagno, del marito detenuto.
Più focalizzato sulla (in)disponibilità della vita umana da parte dello Stato, il docufilm “Spes contra spem, liberi dentro” (è spesso contro la speranza che bisogna sperare, insegnava l’apostolo Paolo) a testimonianza della intensa attenzione di Marco Pannella (scomparso nel maggio scorso) e del Partito radicale (l’associazione “Nessuno tocchi Caino” con Sergio d’Elia, Rita Bernardini, Elisabetta Zamparutti) sullo stato del sistema carcerario.
Qui la macchina da presa di Ambrogio Crespi artiglia il lavoro di trasformazione soggettiva di alcuni “invisibili” (in Italia sono 1200) ristretti nel carcere duro di Opera. Sono i condannati del “fine pena mai”.
Se nell’ergastolo “normale”, dopo 26 anni di detenzione, i condannati possono uscire oltre ad avere la possibilità di usufruire di permessi premio, semilibertà o liberazione condizionale, in quello “ostativo” i condannati risiederanno in un regime di eccezione, senza poter accedere ad alcun beneficio penitenziario, tranne in un caso: collaborando con la giustizia, diventando “pentiti”.
Nel docufilm, criminali, mafiosi, autori di numerosi omicidi espongono quasi fisicamente la fatica di una lingua in grado di disimparare (e disinnescare) la violenza. In effetti, dietro le sbarre “ho scoperto che sono libero di non uccidere” e “qui mi sono liberato delle cose che mi rendevano prigioniero dentro la testa”.
Visione “troppo poetica” (si è chiesto Salvatore Aleo, ordinario di Diritto penale all’università di Catania) per spazi senza tempo, dominati dalla luce artificiale, dove si vedono unicamente muri di cemento di fronte alle sbarre delle finestre?
Infine, il film Robinù, di Michele Santoro con i ragazzini dei bassi napoletani (Forcella, i Decumani, i Tribunali, Porta Capuana) in fuga dall’adolescenza. Per diventare grandi, prendono esempio dai film americani furiosi; aspirano a possedere un “kalash” a riprova della loro potenza sessuale: “Meglio che stringere tra le braccia Belen”. Obiettivo, i soldi. Tantissimi. Almeno, ne favoleggiano. Nei vicoli si accumulano i segni esteriori della riuscita sociale.
Giubbotti alla moda, teste rasate sulle tempie, canna da fumare adagiata sull’orecchio, smartphone. “Oggigiorno comanda chi fa più reati. Più macelli fai, più la gente tiene paura di te”.
La “paranza dei bambini” occupa da due anni le strade napoletane. Baciare la pistola che ha sparato contro i poliziotti e poi festeggiare in un bar con champagne e cornetti: il rischio, la sfida, l’imprudenza sono all’ordine del giorno. Vince la legge del più forte. Impossibile sottrarsi al proprio destino. A meno di non scappare tirando un rigo sui codici, sulle parole d’ordine del tuo territorio.
A scuola no, i ragazzini non sono mai andati. Comunque, la disaffezione scolastica non è affare recente. Entrare in carcere a diciassette anni; uscirne a quaranta. “Tu però queste cose le devi fare ora. Perché così, se vai in galera per vent’anni, esci e hai tutta la vita davanti”.
Emanuele Sibillo, il Robinù del titolo, ucciso latitante a diciannove anni da un clan rivale, ammoniva: “Non dovete comportarvi come me”. L’hanno trasformato nell’icona del padre autorevole.
Le figure femminili sono anch’esse protagoniste. Pronte a discutere sui modi di preparare le palline di coca o su Maria De Filippi, cambiano rapidamente posizione: da mogli giovanissime a compagne del nuovo capo. Certo, nel film di Santoro e prima, Nella Casa di Borgo San Nicola, l’ineluttabilità della condizione femminile viene comprovata dalla funzione di moglie, madre, sorella, amica.
Ai figli, alle famiglie si riferiscono pure i condannati del carcere di Opera. Ma loro ne ragionano con una sorta di autocoscienza femminista per scavare un intervallo dalla violenza praticata giacché “non si smette di essere persone per l’essere imprigionati a motivo del reato commesso”.
In Robinù i ragazzini hanno perso ogni capacità di distinguere tra male e bene. La loro è una rivolta giovanile spettacolarizzata nella quale famiglia, cultura, ambiente non rappresentano più un riparo, un contenimento.
Si tira avanti in questa valle di lacrime dove la ragazza-madre agli arresti domiciliari spaccia per 35 euro al giorno. Badate: spaccia ai figli degli altri per la sopravvivenza del proprio figlio. E dal momento che “spacciatrici si nasce”, lei che non ci è nata, si è trasformata – senza rimorsi, senza sensi di colpa – in spacciatrice “di necessità”. Ma ai ragazzini di Forcella chi insegnerà la distinzione tra bene e male se non ci sono parole autorevoli da spendere?

DeA Donne e Altri