“La reclusione travolge i familiari, rimbalza sui figli e alla sofferenza si aggiunge il senso di colpa. Il rapporto fra bimbi e genitori va protetto, anche valutando tutte le potenzialità della giustizia riparativa”.
Alla fine di marzo erano 28 i bambini rinchiusi con le madri in strutture carcerarie: un numero che non si può ridurre a inevitabile danno collaterale dell’esecuzione della pena detentiva e che riassume pesanti violazioni di diritti garantiti dalla Costituzione e dall’ordinamento internazionale. Un numero intollerabile che racconta storie di emarginazione ed esclusione, di croniche insufficienze delle reti territoriali di assistenza, di ritardi e vuoti strutturali di cui, come sempre, sono i soggetti di maggiore vulnerabilità a subire gli effetti più dirompenti e a volte irrimediabili.
Tuttavia a questi 28 bambini e alle loro madri potrebbero essere evitati sia il carcere sia gli Icam (5 in Italia questi Istituti a custodia attenuata per detenute madri) che pur garantendo migliori condizioni di vita restano comunque strutture carcerarie. Già dal 2011 è stata aperta la strada delle case famiglia protette che garantirebbero maggiori tutele di figli e madri, ma ad oggi quelle attivate sono soltanto due (Roma e Milano), e il problema dei bambini reclusi resta irrisolto, contraddicendo principi fondamentali fissati a garanzia del “superiore interesse del minore”.
Questa contraddizione appare ancora più drammatica se allarghiamo lo sguardo a tutti i figli di persone detenute, misurandoci con i grandi numeri della figliolanza inevitabilmente travolta dagli effetti delle condanne di madri e padri. Un enorme carico di afflizione che ci interroga sul senso e sul reale perimetro della pena le cui concrete e ramificate implicazioni si estendono ben oltre il carcere.
Dalle statistiche dell’amministrazione penitenziaria si ricava un dato impressionante: il 31 dicembre 2022, su oltre 56 mila detenuti (solo il 4,2% le donne) quelli con prole erano quasi 26 mila con non meno di 60 mila figli. Se poi guardiamo alle dimensioni europee della questione, restiamo senza fiato: nell’Unione europea dei 27 più il Regno Unito i bambini che vivono separati da uno dei genitori in carcere sono 800 mila, e nell’area del Consiglio d’Europa 2,1 milioni.
C’è tutto un mondo di bambini che devono far fronte alla separazione dai genitori proprio nelle fasi di vita più delicate, destinate a condizionarne profondamente lo sviluppo. Bambini esposti a stigma, precarietà, povertà, violenza, disturbi dell’apprendimento, problemi di salute mentale. Sappiamo bene, noi donne ristrette, quanto la detenzione riesca ad allagare la vita dei familiari, destinatari di fatto, spesso dimenticati e invisibili, delle misure penali.
Tocca innanzitutto ai figli questo carico di sofferenza che nessun codice prevede e nessun giudice dispone; e la condizione dei figli, a sua volta, rimbalza dolorosamente sui genitori, sulle madri in particolare. Per esse, alla sofferenza che il carcere in quanto tale comporta, si aggiunge il carico ancora più afflittivo dei sensi di colpa per gli sconvolgimenti che l’arresto e la detenzione provocano sulla vita dei familiari; dell’angoscia di sentirsi espropriate del ruolo materno e dell’ansia di non riuscire ad esserne più all’altezza al momento del rientro. È più che una doppia pena, e ne facciamo esperienza ogni giorno.
Sappiamo che quando ci si riferisce ai bambini, si apre un ventaglio di diritti cui sono assegnate tutele e garanzie del più alto livello. I bambini sono infatti portatori di diritti cui la Costituzione assegna speciale protezione e favore. Il loro superiore e preminente interesse è riconosciuto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti dell’infanzia e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Il rapporto del bambino con entrambi i genitori è protetto dal diritto fondamentale alla vita familiare fissato dalla Convenzione europea dei diritti umani. Come tutti i diritti, tuttavia, anche questi dei bambini devono essere bilanciati e contemperati con altri diritti, come, per esempio, quelli di sicurezza pubblica. A noi pare ragionevole, in tal caso, aspettarsi limitazioni e compressioni rese inevitabili da consistenti livelli di pericolosità e rischio criminale. Ma guardandoci attorno – e non ci sfugge certo la parzialità del nostro sguardo – vediamo che ai casi di indiscutibile gravità, si affiancano quelli, assai più numerosi e di ben minore caratura, che non sembrano avere la “eccezionale rilevanza” che il codice richiede, per esempio, per le misure cautelari carcerarie di donne incinte o madri di prole inferiore ai sei anni.
Bilanciamenti assai meno dolorosi sarebbero possibili in tante situazioni: non ultime quelle che vedono Il coinvolgimento di donne Rom, espressioni di una realtà da sempre contrassegnata da diffuse forme di discriminazione, emarginazione, esclusione sociale. Per queste nostre compagne, invece, la maternità e la gravidanza finiscono per diventare delle aggravanti, degli esempi di cinica strumentalizzazione dei figli, usati per evitare il carcere o come grimaldelli per uscirne. Sarebbero probabilmente le prime destinatarie della proposta di cui leggiamo in queste settimane che giunge a prevedere la decadenza dalla responsabilità genitoriale delle donne “recidive reiterate”.
Ma nella nostra esperienza di reparto, sono tante le persone la cui recidiva, più che esprimere carriere di alto profilo criminale, stili di vita violenti e di grave pericolosità sociale, riassume il ripetersi, talvolta disperato, di reati su cui è forte l’impronta della marginalità, della tossicodipendenza, del disagio mentale, dei naufragi esistenziali che tutte e tutti rischiamo specie quando si è privi di pur minimi ancoraggi sociali e familiari. Non possiamo fare a meno di pensare quanto sarebbero del tutto sproporzionate e inumane misure punitive come quelle prospettate, e quanto più che mai sbilanciato il preminente interesse del minore d’età. I numeri della recidiva non dimostrano di per sé quanto siano poco efficaci e produttive le scelte di moltiplicare e inasprire le pene?
Nella necessaria risposta a fatti di reato che coinvolgono persone con responsabilità genitoriali, perché, per esempio, non orientarsi a soluzioni di giustizia riparativa, esplorandone tutte le potenzialità di tutela dei primari interessi dei bambini? Ci è difficile immaginare qualcosa di meglio di uno “spazio riparativo” perché vi abbiano piena rappresentazione obblighi, bisogni, diritti che nel loro intrecciarsi costituiscono la trama assolutamente inscindibile che connette vittime dirette e indirette, autori di reato e comunità, genitori e figli. Con tutte le cautele, le garanzie e le professionalità necessarie, il fragile mondo della minore età potrebbe entrare nello spazio riparativo dando ascolto e visibilità a bisogni e interessi così facilmente e irrimediabilmente lesionabili.
L’accesso anche dei bambini a percorsi di giustizia riparativa sarebbe del tutto coerente con l’articolo 12 della Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia (ne ritroviamo i motivi ispiratori anche nell’articolo 315-bis del codice civile), che prevede che ai fanciulli, se capaci di discernimento, sia data l’opportunità di esprimere liberamente le proprie opinioni su tutte le questioni e le procedure che li riguardano.
Nel rispetto dei vincoli penali, tutti i soggetti a qualsiasi titolo interessati dai fatti di reato dovrebbero avere la possibilità di intervenire nella ricerca dei giusti esiti riparativi: un risultato difficile da immaginare se mancasse l’ascolto dei bambini e della pressante richiesta di una giustizia realmente a misura del loro superiore interesse.
Per parte nostra, non perdiamo la speranza che questa prospettiva sia qualcosa di più dell’ingenua utopia di donne detenute che pensano che le ragioni dei figli, là fuori, anziché moltiplicare sterilmente le pene della maternità reclusa, possano suggerire forme di una più coinvolgente e feconda giustizia. Restituendoci – non ultimo – il diritto di non sentirci colpevoli di essere madri.
La Stampa, 27 aprile 2023