La persona che ha effettuato il falso riconoscimento di un figlio naturale non può impugnarlo per difetto di veridicità, 5 dicembre 2012

da | Dic 5, 2012 | Anno 2012

La persona che ha effettuato il falso riconoscimento di un figlio naturale non può impugnarlo per difetto di veridicità
Attribuire la legittimazione a chi ha effettuato la dichiarazione in mala fede contrasta con il divieto di revoca

La persona che ha effettuato un falso riconoscimento di un figlio naturale non ha poi la possibilità di impugnarlo per difetto di veridicità. Attribuire, infatti, la legittimazione a impugnare a chi lo abbia effettuato in male fede, ha sul piano logico, la stessa valenza di una revoca espressamente vietata dalla legge. Sono queste le conclusioni raggiunte dal tribunale di Roma con la sentenza 19563/12 che respinto la domanda di un uomo che ha impugnato il riconoscimento di una bambina legittimata poi con il matrimonio con la madre.

La madre della piccola si è opposta alla domanda sostenendo che il riconoscimento era avvenuto nella piena consapevolezza della sua falsità dal momento che l’uomo aveva conosciuto la mamma quando la figlia aveva già sette mesi. L’istanza, pertanto, si doveva considerare illegittima.

Il tribunale nel respingere la domanda dell’uomo, ha stabilito che l’autore del riconoscimento effettuato in mala fede non è legittimato a impugnarlo successivamente per difetto di veridicità, restando, invece, tale legittimazione in capo a tutti gli altri soggetti previsti dall’articolo 263 del codice civile.

Il collegio ha affermato di essere consapevole che la tesi preferita è stata negata in un risalente precedente della Suprema corte (sentenza 5886/91), ma ha ritenuto che i principi affermati a favore dell’irrilevanza dello stato soggettivo di chi abbia effettuato il riconoscimento, per l’affermata prevalenza del favor veritatis in ordine agli stati personali e familiari, debbano essere rivisitati alla luce delle successive evoluzioni giurisprudenziali e normative.

La stessa sentenza del 1991 affermava, infatti, di essere consapevole «che un tale sistema normativo rende in pratica possibile a chiunque di operare, eventualmente per motivi non commendevoli, un riconoscimento non veridico di figlio naturale, sicuro di poterlo mettere nel nulla ad libitum ed in qualsiasi momento, essendo accessibile agevolmente la prova della non veridicità dello stato ed imprescrittibile la relativa azione ai sensi del 3 comma dell’art. 263 c.p.c., con la conseguenza che una norma giuridica può pervenire in tal caso a rivestire di legalità un comportamento indiscutibilmente illecito», ma riteneva che tale inconveniente avrebbe potuto essere rimosso solo con l’intervento del legislatore.

Successivamente la Cassazione, ha proseguito il tribunale, con la sentenza n. 2315 del 1999, negando l’azione di disconoscimento di paternità a chi avesse dato il consenso alla fecondazione eterologa, ha in sostanza superato tale orientamento, affermando principi che si ritiene abbiano valenza generale e che hanno trovato conferma nella legge n. 40 del 2004.

Infatti l’azione di disconoscimento della paternità compete al marito, alla madre e al figlio, cioè ai tre protagonisti della vicenda procreativa, ma non ai terzi, e nemmeno al pubblico ministero. Questo ristretto ambito di titolarità dell’azione, coordinato con la tassatività dei casi in cui è esercitabile e con i brevi termini di decadenza stabiliti, indica che la preferenza e prevalenza della realtà sulla presunzione non sono incondizionate, non rispondono a un’esigenza pubblicistica, ma «mirano a difendere esclusivamente le posizioni di quei soggetti, ai quali soltanto è demandata la valutazione comparativa delle due situazioni in conflitto e la decisione di optare per l’una o l’altra, facendo emergere la verità, ovvero mantenendo la fictio iuris della paternità presunta».

In questo contesto, quindi, la tutela del diritto allo status e all’identità personale può non identificarsi con la prevalenza della verità biologica. Ne consegue che l’interpretazione dell’articolo 263 del Cc, alla luce dei principi fondamentali dell’ordinamento interno e internazionale e del diritto fondamentale allo status e all’identità personale, «impone di considerare irretrattabile il riconoscimento avvenuto nella piena consapevolezza della sua falsità». È la stessa ratio della norma che prevede l’irrevocabilità del riconoscimento, ha concluso il collegio, che impone di non attribuire al soggetto che lo abbia effettuato in mala fede la legittimazione a impugnarlo ed è anche la natura dell’azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità che induce a ritenere che tale azione «non possa spettare proprio al soggetto che abbia posto in essere la situazione giuridica per cui la modificazione è apprestata».