La scintilla di Irene, Lunanuvola's Blog

da | Apr 6, 2014 | Donne dal mondo

Irene Fernandez, nata nel 1946, se n’è andata il 31 marzo scorso per un arresto cardiaco. “Ha lottato, come sempre.”, ha detto sua sorella minore Aegil alla stampa, “Ma il suo cuore si è arreso.”

 

Irene era la fondatrice del gruppo per i diritti umani “Tenaganita” (“La forza delle donne”). Diventata insegnante in giovane età, lasciò la carriera a 23 anni per dedicarsi completamente all’attivismo. Il primo sindacato dei lavoratori nel settore tessile, le campagne per i diritti delle donne, l’informazione ai consumatori, la lotta contro i pesticidi, la creazione di un progetto di riforma agraria: nel suo paese, la Malesia, tutto questo porta la sua firma.
Ma soprattutto, sono stati i migranti il fulcro della sua azione, per i quali “Tenaganita” ha aperto centri assistenza e rifugi: il 16% della forza lavoro malese è composta da persone provenienti da Indonesia, Filippine e altre nazioni asiatiche. Poiché circa la metà sono “illegali”, le loro condizioni di impiego nelle case, nell’industria dell’olio di palma e nell’edilizia assomigliano molto alla schiavitù. Gruppi di volontari, con la benedizione del governo, danno la caccia ai migranti per le strade.
Nel 1995, Irene intervistò più di 300 stranieri detenuti per ingresso illegale nel paese e documentò abusi, pestaggi, stupri, privazione di cibo e acqua e cure sanitarie. Nel marzo dell’anno successivo, un quotidiano pubblicò un resoconto dell’indagine redatto da Irene stessa e il governo la denunciò per diffamazione e diffusione di notizie false. Il processo si trascinerà per oltre dieci anni, risultando il procedimento legale più lungo nella storia del paese. Irene fu condannata ad un anno di carcere in primo grado, e rilasciata in attesa dell’appello. Nelle interviste disse che era pronta a far esperienza della prigione: “Mi darà l’opportunità di scrivere un rapporto sulle condizioni di detenzione e di vedere che cambiamenti devono essere fatti.” Nel 2008, il tribunale rovesciò la sentenza, giudicandola non colpevole.
Successivamente, il governo malese diede inizio ad una campagna con il fine di arrestare e deportare 500.000 lavoratori migranti: il loro uso dei servizi sociali e dell’istruzione pubblica, spiegò, costava troppo. Irene condannò pubblicamente la decisione e sottolineò che il provvedimento non si prendeva la briga di tutelare i rifugiati. Nel 2012, disse ad un giornale indonesiano che la Malesia non era un posto sicuro per i lavoratori stranieri, poiché non aveva leggi atte a proteggerli, e il governo si sentì di nuovo assai oltraggiato (“Non si rende conto che non aiuta affatto il suo paese con queste affermazioni.”, dichiarò il Primo Ministro) ma questa volta non portò in tribunale le proprie lamentele. Era ormai difficile, dato il riconoscimento del lavoro di Irene a livello internazionale: Amnesty International Award nel 1998, International PEN Award nel 2000, Jonathan Mann Award nel 2004 e Right Livelihood Award (il “Premio Nobel Alternativo”) nel 2005, relazioni e contatti con organizzazioni per i diritti umani in tutto il mondo.
Il dolore per la scomparsa di Irene non colpisce solo la sua famiglia (il marito, due figlie e un figlio, e due sorelle) ma chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerla, come attestano le dozzine di tributi che le sono accreditati in questi giorni sulla stampa e sul web. E proprio da essi si comprende come questa donna lasci dietro di sé un’impronta indelebile, un’eredità che continuerà ad ispirare coraggio in donne e uomini che vogliano lottare per i diritti umani e la giustizia.
Una volta chiesero ad Irene quale fosse stata la scintilla per la sua attività. Lei raccontò che i suoi genitori, essi stessi migranti in Malesia, erano i supervisori di una piantagione di gomma e perciò da bambina le era costantemente proibito giocare con i figli dei lavoratori. La ferita che questo le inflisse era così profonda che Irene pensò di non poterne guarire, se non assieme agli altri e alle altre che erano feriti/e.

Il blog di Maria G. Di Rienzo