Una testimonianza di Annamaria Barbato Ricci
Quando succedono queste cose le parole sembrano l’ancora che ti mantiene agganciata alla vita.
Una quasi coetanea, giornalista valente e appassionata scompare, falciata da un male implacabile, e senti quasi come un imperativo categorico l’obbligo interiore della testimonianza.
Candida Curzi è stata una giornalista-faro. Proiettava un fascio di luce di professionalità e rigore su chi lentrava nel suo raggio d’azione.
Sincera, senza formalismi: quando rispondeva al telefono – cosa rarissima per un caporedattore, ma con lei accadeva spesso – alla Cultura dell’ANSA, ascoltava l’evento che avevi da proporle e poi ti diceva con franchezza se volevi contrabbandarle una bufala o effettivamente era un’iniziativa interessante. Magari accompagnando il rifiuto con una battuta che ti lasciava pure contenta.
Col tempo avevamo preso a chiacchierare un attimino in più e mi son confidata con lei come neanche con qualche amica frequentata per decenni, allorché una persona cara, circa 13 anni fa, fu colpita da neoplasia al polmone.
Suo padre, il mitico Kojak – Sandro, aveva condotto una battaglia epica contro questa patologia e, alla ricerca di conforto e consigli, mi rivolsi a lei. Fu prodiga di entrambi; superata questa strettoia, la vita riprese per l’ex ammalato e per me, che ritornai a tampinare Candida per motivi strettamente professional-culturali.
Se ci penso su, mi accorgo che, a fronte di diverse decine di mie telefonate, fra noi c’è stato un solo incontro; una questione di media partnership fra il Comitato italiano per l’Unicef – mi occupavo per loro di supporto ai Rapporti Istituzionali – e l’ANSA, affrontata, nell’autunno del 2007, durante una riunione nell’ufficio del Direttore Giampiero Gramaglia, con la partecipazione anche del Presidente pro tempore dell’Unicef, Vincenzo Spadafora.
Fu un successo e Candida partecipò attivamente all’elaborazione della strategia di collaborazione fra la maggiore Agenzia di Stampa italiana – e fra le più importanti al mondo – e l’ong.
Dopo di allora non ci siamo mai più viste. Parlate, forse, un paio di volte, giacché lei era passata all’Ufficio dei Caporedattori centrali che, in genere, scansano lo stalking degli uffici stampa.
La macchina di un’Agenzia è complessa e questi timonieri oberati nel cercare di sostenere il Direttore al disegno della rotta quotidiana almeno evitano i tafani press officer.
Nel frattempo, suo padre Sandro, già audace direttore del TG3, a cui diede un’inconfondibile fisionomia di apertura mentale, scompariva nel 2008; neanche due mesi fa, dopo una lunga malattia, moriva sua madre, Bruna Bellonzi, anche lei memorabile giornalista. Questione di DNA? Chissà… ma c’era anche una cifra specifica di Candida, che aveva scelto non i luoghi della visibilità giornalistica – la carta stampata, la tv – bensì l’agenzia di stampa, il favo delle api operaie che portano il miele alle firme-regine.
E aveva cominciato da reporter, a caccia di scoop, sapendo intessere una tela di contatti che le consentivano di stare un passo avanti e di onorare la grande tradizione dell’ANSA in questo campo.
Chi sta in trincea, poi, sicuramente deve abituarsi ad una rivoluzione copernicana della propria mentalità operativa, una volta che diventa uomo/donna ‘di macchina’, passando a fare il caporedattore.
Un pastore col suo gregge, di cui ha la responsabilità e che non deve far cadere nei crepacci. Anche in quello Candida si cimentò e le riuscì bene, conquistandosi il famoso timone di cui sopra.
Non aveva avuto segnali particolarmente preoccupanti del male che poi l’ha falciata e spenta in brevissimo tempo. O almeno così pare. Facendo la fila dinanzi alla Sala del Carroccio del Palazzo Senatorio in Campidoglio, ho ascoltato, bucando la nebbia del dispiacere che mi avvolgeva, alcuni colleghi che se lo dicevano fra loro, increduli almeno quanto me, che l’avevo appreso la mattina da ‘Il Fatto Quotidiano’, giornale in cui, fino a qualche mese prima, era caporedattore suo marito, Vitantonio Lopez, ex giornalista dell’ANSA.
Confesso di esseri sentita assolutamente inadeguata e persino vergognosa, col cappuccino fumante e la brioche sul tavolino, di fronte a quella notizia che mi gettava in faccia la parabola conclusasi prematuramente per una grande giornalista, quasi coetanea, con cui avevamo condiviso commenti e considerazioni sui fatti del giorno.
Si dice ‘un tuffo al cuore’ e ho tante volte constatato che non è una metafora, né un’esagerazione: davvero ti senti mancare un battito, quando ti trovi di fronte ad una notizia dolorosa, che ti coglie di sorpresa.
Eravamo tutti un po’ rintronati, di fronte al feretro, a quelle foto di una Candida emanante vitalità, ai suoi figli e a Vitantonio che ripeteva: “Scusatemi, sono un po’ stordito”. Paradossalmente, le note di ‘Matilda’, la canzoncina di Harry Belafonte che le figlie hanno deciso di usare come colonna sonora dell’addio, perché piaceva tanto alla loro mamma, hanno funzionato da piccolo input consolatorio, da molla di uno stentato sorriso.
Come resistervi, eco di un’infanzia ingenua e allegra? Per me è stato così: ho ricordato quando mia zia, scomparsa quest’anno ad aprile, su mia richiesta, ne faceva suonare il disco più volte nel radiogrammofono tedesco che ancora campeggia nel suo tinello e che ho ereditato. Sarà stato così anche per Candida? L’ho sentita sorella nel sorriso e non nelle lacrime e vi restituisco il ricordo di lei tutto avvolto nell’involucro di ironia che era il suo specialissimo biglietto da visita…