Vorrei esporre un racconto clinico, come piace fare alla mia direttrice di giornale Marta Ajò.
Ci provo, poi parla anche di me, in parte.
Come si può leggere dal titolo, ho sentito spesso da colleghi e pazienti etichette simili. Un giorno, infatti, ho ascoltato una collega di un nobile liceo milanese in cui si insegnava a studiare in inglese le materie scolastiche, anche alle superiori. Insomma una scuola d’elitè. Marina C., docente di matematica, così si chiamava la mia interlocutrice, mi chiamò a colloquio, con la presenza del dirigente, perché una sua studentessa era particolarmente “diversa” dalle altre, ed era una mia paziente in psicoterapia presso il mio studio a Monza. La chiamerò Beatrice, detta la “bella Bea”, per la bellezza con cui si presentava. Aggiungerei soprattutto morale, per valori e idee.
La scuola era prettamente femminile, cosa non irrilevante, ma retta da un dirigente che, pur giovane e scaltro, non libero da pregiudizi.
Il fatto di cui parlo è successo nel 2021, a ridosso dell’estate, in piena pandemia, tempo di isolamento e terrore. Si dice antisemita di un pensiero, un concetto, un’ideologia. Ebbene in questo caso veniva evidenziata la caratteristica, ahimè saliente, che “la bella Bea” era ebrea, e così mi fu presentata. Come una ragazza già per la sua religione, una persona che poteva avere delle questioni psicologiche relative alla famiglia e ai legami che potevano influire sulla costruzione della realtà mentale.
“Si sa gli ebrei sono chiusi, nelle loro famiglie s’impartisce un’educazione settaria, legata ai loro usi che possono favorire l’estraniamento dal contesto sociale”. Erano queste le parole di Marina C., appoggiate dal suo dirigente. Infatti, e facendo un errore di ragionamento, un bias cognitivo, direbbero i cognitivisti, approfondirono la questione dicendo: “la studentessa parla poco con noi insegnanti, si isola in classe e, suo malgrado, è intelligentissima”. Eh sì, che piaccia o no, anche a chi non piacciono, gli ebrei vengono etichettati come appartenenti ad una razza intelligente!
Marina C. mi disse con enfasi ad un certo punto, sicura di sé: “la studentessa è un’autistica!”, quasi a mo’ di sfogo, non controllando la sua partecipazione emotiva ma facendo parlare il suo inconscio. La dimensione irrazionale che doveva escludere Bea dalla classe, dalla società, che era dominante in quel colloquio, privo di sana distanza dai preconcetti e della rabbia che potevano far scaturire. Cosa dire allora, dopo un dialogo così apparentemente privo di apertura mentale, così ormai impostato, facendo un errore logico, nel seguire un cliché sociale? Risposi con una frase laconica quanto incisiva: “Mah, non direi, visto come chiede aiuto psicologico a me!”.
Non per rimarcare la mia bravura come terapeuta, Bea veramente era capace di farsi ascoltare, di voler credere che c’era un Altro, a cui volere affidarsi. Così propongo una teoria a me molto cara, di Bruno Bettelheim, che deve essere stata colta in quell’ ambiente con scetticismo, se non con diffidenza, avendo notato la loro comunicazione visiva. La buona teoria consisteva nel trattare umanamente tutti i soggetti di un istituto in modo tale da favorire il dialogo e lenire la paura degli altri. Perché di questo soffriva “la bella Bea”. Soffriva per non avere un riconoscimento positivo e di essere giudicata a priori da tutti, con “occhio paranoico”, oltretutto severissimo e intransigente.
Bruno Bettelheim psicoanalista di origine ebraica, fuggito negli Stati Uniti e superstite alla persecuzione nazista, impostò la sua teoria tesa ad aiutare gli autistici e a migliorare le loro capacità relazionali, in base al funzionamento dell’Orthogenetic School di Chicago degli anni ‘50. Perché invece dare proprio un’ottica di lettura improntata sull’autismo? Perché è il sistema sociale che doveva relazionarsi con tutti in modo da creare un contesto favorevole, tale da predisporre alla socialità chiunque.
I pregiudizi che avevano loro, non avrebbero portato da nessuna parte. Quindi la teoria di Bettelheim, in quel contesto, diventava una possibilità, una proposta di un paradigma per la relazione fondamentale con l’Altro.
Mi chiederete come finì il colloquio con Marina C. e il dirigente. Mi ascoltarono comunque attentamente, e mi chiesero se avessi io una psicodiagnosi da proporre. Niente, dissi loro! La diagnosi, se davvero dovevo esplicitare un mio parere, era una sofferenza determinata dal gruppo in cui era inserita, da un’istituzione non accogliente, che non aiutava a far emergere le sue caratteristiche di intelligenza emotiva.
Ieri, ed è per questo che ho voluto scrivere un articolo, mi è arrivata una mail da parte del capo d’istituto e dalla docente niente affatto inclusivi, che m’informava che la mia paziente aveva superato brillantemente gli esami di stato, la maturità e che aveva, nel suo colloquio iniziale, citato me.
Forse io ho rappresentato, per quella ragazza, un legame tra quell’ambiente ostile e il mondo, aprendo un varco con il mondo, favorendo il suo desiderio di conoscere gli altri e di poter interagire con più fiducia con loro.
Oggi “la bella Bea” non sente quasi più il vincolo del giudizio degli altri e dice di essere interessata autenticamente a loro. L’occhio inesorabilmente “persecutore” non è più presente dentro di lei, si è fidanzata e il prossimo anno andrà all’ Università.