Per l’interesse della questione trattata riproponiamo la lettura dell’articolo di Alice Facchini su L’Essenziale (ndr).
“Mi sono sposata giovane e ho avuto tre figli che oggi sono degli uomini fatti. Mio marito mi picchia, da sempre. Anche prima del matrimonio, anche durante le gravidanze. Nessuno l’ha mai saputo: non lascia mai segni, mi colpisce sulla testa, dove non si vede. Con le nostre famiglie non ha voluto mantenere i rapporti. Non è mai andato d’accordo con i suoi genitori, ma non voleva nemmeno che frequentassi i miei né le mie sorelle: aveva paura che raccontassi qualcosa e forse loro avevano capito. Così a poco a poco ci siamo persi, solo qualche telefonata per gli auguri e nient’altro”.
Paola (il nome è di fantasia, come quello delle altre donne che si raccontano in questo articolo), settant’anni, è tra le migliaia di anziane che ogni anno in Italia subiscono violenza, spesso da parte del partner o di un familiare. Aggressioni fisiche, pressioni psicologiche, ricatti economici, fino ai femminicidi: in molti casi la violenza si sviluppa già nelle prime fasi della relazione, ma può essere anche l’esito di atteggiamenti aggressivi che si acuiscono con l’invecchiamento.
“Spesso sono donne che hanno portato avanti la loro relazione in un periodo in cui la violenza tendeva a essere giustificata, se non considerata come un possibile metodo correttivo”, spiega Laura Saracino, responsabile dell’accoglienza alla Casa delle donne per non subire violenza a Bologna. “Al tempo c’era un humus culturale molto diverso. Oggi le donne sono più consapevoli e hanno meno paura di denunciare, anche grazie alla presenza sul territorio dei centri antiviolenza, che non esistevano prima della fine degli anni Ottanta”.
Negli ultimi anni, le richieste d’aiuto delle donne con più di 65 anni stanno aumentando: nel 2021 le chiamate al numero verde antiviolenza 1522 sono state 1.367, oltre l’8 per cento del totale, a fronte delle 796 del 2018. Eppure, il fenomeno resta ancora sommerso.
L’Istat, nella sua indagine sulla violenza contro le donne, prende in considerazione solo la fascia d’età dai 16 ai 70 anni, quindi per le donne più grandi bisogna rifarsi alle statistiche sulla più generica categoria di abuso sugli anziani. “Spesso, quando si parla di violenza contro le donne anziane, ci si riferisce a maltrattamenti da parte di familiari, badanti o nelle case di riposo”, spiega Mariangela Zanni, presidente del Centro veneto progetti donna. “Si parla poco invece della violenza nelle relazioni intime”.
Si tratta di una generazione cresciuta con una divisione dei ruoli molto tradizionale
Una delle ricerche più esaustive sul tema, condotta dall’università degli studi della Campania Luigi Vanvitelli, ha analizzato 1.207 casi di femminicidio in Italia tra il 2010 e il 2019, focalizzandosi sul tipo di violenze subite dalla vittima e sul motivo che ha spinto l’omicida ad agire, e confrontando quello che è accaduto a donne giovani (dai 15 ai 24 anni), adulte (dai 25 ai 64 anni) e anziane (dai 65 ai 93 anni). È risultato che il 27 per cento delle vittime aveva più di 65 anni.
Tra le violenze che precedono il femminicidio, la più comune in tutte le fasce d’età è il comportamento controllante, seguito dallo stalking tra le adolescenti e le adulte, e dalla violenza fisica tra le anziane. Per quanto riguarda le cause scatenanti, la gelosia e la mancata accettazione della fine di una relazione sono più frequenti tra le donne adulte, mentre tra le anziane l’omicidio è spesso associato alla presenza di una malattia fisica o mentale. “La questione della cura è centrale”, spiega Laura Saracino. “Nella nostra società gli uomini non sono abituati a prendersi cura dell’altro: quando la partner invecchia o si ammala, non sempre riescono a sostenere questo nuovo equilibrio e a volte reagiscono con la violenza”.
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Current psychiatry reports, che prende in considerazione anche l’Italia, l’omicidio-suicidio tra le persone anziane ha caratteristiche specifiche e avviene in particolar modo su donne malate o con una disabilità. “Si tratta di un gesto estremo, a volte legato alla volontà di togliere la sofferenza o alla paura di quello che succederà quando morirà anche il caregiver”, spiega Patrizia Zeppegno, professoressa dell’Università del Piemonte orientale, tra le autrici della ricerca. “L’omicidio-suicidio è una prerogativa piuttosto maschile: le donne sono più abituate a prendersi cura degli altri e a sopportare situazioni anche molto pesanti”.
Denunciare è più difficile
Le ragioni per cui per le anziane è più complesso denunciare la violenza sono diverse: l’impossibilità di chiedere aiuto per via di una disabilità o dell’isolamento, il timore di essere allontanate dalla famiglia, il bisogno di venire accudite dal partner, che spesso è l’unico caregiver. C’è poi la questione della dipendenza economica.
Si tratta di una generazione cresciuta con una divisione dei ruoli molto tradizionale, che affidava all’uomo il compito di lavorare e alla donna quello di occuparsi della casa. “Come faccio a denunciare e andarmene di casa se non ho la pensione e non posso neanche permettermi di pagare un affitto?”, spiega Saracino. “E poi ci sono le spese per i farmaci, per le terapie o per una badante, nel caso in cui si tratti di una persona non autosufficiente”.
Inoltre per le donne anziane lasciare la casa, entrare in una struttura protetta e convivere con altre persone può essere particolarmente difficile e faticoso. Anche quando qualcuna lo fa, spesso ci ripensa. “Sono stata ospitata per alcuni giorni in una struttura protetta: mio marito mi aveva colpito alla testa e la ferita ha richiesto molti punti”, racconta Silvia, 75 anni. “Mio figlio si è spaventato perché è stato chiamato dai carabinieri: ha testimoniato il falso di fronte al magistrato, negando ogni forma di violenza e accusando me di comportamenti sessualmente compromettenti con altri uomini. Mi ha detto che se non avessi ritirato la denuncia non avrei mai più rivisto né lui né i miei nipoti. Alla fine ho deciso di tornare”.
Vedersi sradicate negli ultimi anni di vita è dolorosissimo e spesso insopportabile
Quando vengono a conoscenza della violenza, i figli possono assumere posizioni diverse: alcuni prendono le difese della madre, altri si coalizzano con il padre, oppure si allontanano e fingono di non sapere. Non di rado, fanno resistenza alla possibilità che la madre lasci la casa.
“Le percosse ricevute da mio marito l’ultima volta sono state talmente gravi che c’è stata una denuncia d’ufficio da parte dell’ospedale: mi ha fratturato un’orbita oculare con un pugno”, racconta Tosca, 78 anni. “Nonostante la condanna, i miei figli maschi hanno sempre accusato me e si sono schierati dalla parte del padre, accogliendolo in casa anche se aveva un ordine di allontanamento. Solo mia figlia sta cercando di aiutarmi, anche se è molto arrabbiata con me ed esasperata dalla mia incapacità di reagire alla situazione”.
A volte poi sono i figli stessi a commettere violenza. “Abbiamo intercettato molti casi di questo tipo”, racconta Arianna Gentili, responsabile della casa rifugio del centro antiviolenza Differenza donna di Roma. “Gli autori della violenza sono soprattutto uomini tra i 40 e i 50 anni: spesso non hanno un lavoro, o si sono separati e sono tornati dalla madre, oppure hanno una dipendenza e compiono piccoli reati. Chiedono soldi, pretendono la pensione e, quando non la ottengono, diventano violenti: abbiamo incontrato donne con le case distrutte, ante dell’armadio spaccate, finestre infrante”.
Per queste donne, affrontare un percorso di uscita dalla violenza è ancora più complesso, perché significa mettersi contro il proprio figlio. “Alla base c’è un forte senso di colpa”, dice Gentili. “Spesso non vogliono essere aiutate in prima persona, ma chiedono di aiutare il figlio a ‘cambiare’. Quello che cerchiamo di far capire loro è che non si può obbligare una persona a intraprendere un percorso di cambiamento, se non c’è la volontà”.
Cambiare il paradigma
Oggi non esistono protocolli specifici per i casi di violenza sulle donne anziane. Mancano strumenti di sostegno economico e l’unica possibilità, per chi ha i requisiti, è fare domanda per il reddito di cittadinanza o per il reddito di libertà, riconosciuto senza limiti di età a donne vittime di violenza per aiutarle a intraprendere un percorso in autonomia. La questione economica si somma alle complessità emotive e psicologiche: “Vedersi negli ultimi anni di vita sradicate, in un luogo nuovo, senza legami, è dolorosissimo e spesso insopportabile”, afferma Eleonora Lozzi, psicologa e psicoterapeuta del Centro veneto. “Il sistema non è strutturato per accogliere le donne anziane”.
Nel 2019 il Centro veneto progetti donna ha avviato Si-cura, che metteva in campo strumenti specifici per contrastare la violenza nei confronti delle donne over 65, seguito nel 2020 dal progetto Dalia. “La più grande difficoltà è quella di aiutare queste donne a sottrarsi dalla violenza pur rimanendo in casa”, spiega Lozzi. “Il lavoro consiste allora nel supportarle a trovare le proprie strategie di sopravvivenza, offrendo loro uno spazio sicuro in cui andare quando hanno bisogno di parlare con qualcuno”.
In questi casi, i centri antiviolenza operano in stretto contatto con i servizi sociali e le associazioni del territorio, per ricostruire intorno alla donna una rete familiare e amicale che la sostenga. “Dobbiamo andare verso una società che non poggi solo sul modello familiare tradizionale, ma che preveda anche possibilità alternative, come progetti di mutuo aiuto o di coabitazione tra persone con diversi trascorsi ed età”, conclude Lozzi. “Bisogna cambiare il paradigma. Per le donne anziane che vogliono uscire dalla violenza, un elemento è fondamentale: la comunità”.