La condizione femminile in Burkina Faso è difficile. Ma ancora tra le donne riecheggiano le parole del leader burkinabé, più che mai vive dopo la deposizione di Compaoré. Un incoraggiamento a riprendersi un ruolo: «ovunque si costruisca il Paese».
Ricordo come fosse oggi il giorno in cui Fatou mi disse a bruciapelo: Noi donne nasciamo maledette… La nostra dura vita è meritata, serve a riscattare la maledizione. La guardo perplessa. Non ho parole in tasca per una simile affermazione. Continua, con lo sguardo perso nel vuoto: Le donne non servono a nulla, non hanno cervello, è inutile perdere tempo… Non capiscono e non capiranno mai. Non scherza. Con il suo pesante fardello, due figli e uno in arrivo, delle vistose ustioni alle mani frutto di un momento di distrazione mentre preparava il tô(polenta di miglio), senza saper leggere e scrivere e senza aver mai frequentato un solo giorno di scuola, defraudata dei sentimenti e vecchia a soli 18 anni, ripete la tiritera che gli uomini della sua famiglia le hanno propinato per anni.
Gridato nelle orecchie. Inculcato nella mente. Inciso sulle cellule cerebrali. Cesellato nel cuore delle emozioni. Non è stato facile spostare il pensiero di Fatou da quelle “certezze” solidificate come macigni nel suo immaginario. Salì, un’altra ragazza-madre, aggiunge lapidaria: Tu sei bianca, non puoi capire. È così! Da noi e per noi è così. Le parole mi muoiono in bocca. Idee maschili diventate leggi femminili e trasformate in obbedienza servile.
Un subdolo ammaestramento, nutrito quotidianamente di stereotipi e luoghi comuni che, da una parte, forgiano alla forza e alla superiorità, al comando e alla violenza la coscienza dei maschi e, dall’altra, alla debolezza e all’inferiorità, all’asservimento e alla giustificazione la coscienza delle femmine. Il maschio cresce convinto che è un diritto concedere alla donna-serva la possibilità di parlare e anche di vivere e la femmina che è un dovere attendere l’autorizzazione dell’ uomo-padrone. Il veleno di pensieri distorti consuma lentamente la vita e la dignità della donna. Dosi piccole e costanti, come la goccia che progressivamente buca la pietra, modellano l’uomo e la sua fantasia di “cacciatore”, vale a dire dominatoree padrone in tutti i sensi. Alla donna non resta che assumere un’esistenza di “preda”, vale a dire sottomessa e schiava, anche qui in tutti i sensi. Latte e supremazia del maschio: alimenti cardini per la crescita di ambedue i sessi.
Oggetto di proprietà
Nell’immaginario collettivo – soprattutto nei villaggi, e in Burkina Faso la maggior parte della popolazione vive nei villaggi – la donna nasce e muore “proprietà” di un uomo: nasce proprietàdel papà; se il papà muore diventa proprietàdei fratelli; quando si sposa, un contratto che ha la fisionomia molto simile alla compravendita, la proprietàpassa al marito e alla famiglia del marito che paga la dote. Proprietà di altri, mai di sé stessa. Quante donne in Burkina Faso sono ancora oggi nutrite con le stesse convinzioni enunciate da Fatou e Salì? Quante si uniformano a queste idee? Molte, tante, troppe! Quanti uomini concepiscono la donna come “oggetto” e ne programmano la concezione, la configurazione, l’utilità? Poi, quando diventa debole e non serve più, la sostituiscono, la buttano via, la cacciano con l’etichetta di “strega”. Molti, tanti, troppi!
Ancora oggi molte donne in Burkina Faso sopportano di essere la seconda o terza moglie, a volte anche quarta e quinta. Tante accettano di essere maltrattate e malmenate, fisicamente e psicologicamente, di portare da sole il peso della famiglia e dell’educazione dei figli, di essere trattate come una “cosa” e di non aver voce in capitolo. Basti solo pensare che durante la festa di matrimonio, per un certo numero di ore, a volte anche un giorno intero, la donna sta con la calebasse (un recipiente ricavato da una zucca) davanti alla bocca in segno della sua disposizione a tacere, a non lamentarsi. Di contro, parecchie donne, una grande quantità, stanno alzando la testa dalle marmittee dalle faccende di casa e stanno dicendo con coraggio tanti “no” a una tradizione distorta che nega dignità e rispetto alle donne.
Le voci del dissenso
Sita ha studiato e letto tanti libri. Ragazza-madre anche lei: il primo figlio, un gioco tra compagni di classe a soli 14 anni; la seconda figlia, una violenza subìta i giorni in cui sosteneva l’esame di maturità. Lei non si lascia piegare dai luoghi comuni. Il suo approccio è diverso. Lei conosce il discorso di Sankara sulle donne e ne fa il suo cavallo di battaglia. Le altre sorridono e dicono che parla come le donne bianche. La tradizione contro la cultura. L’ignoranza contro la conoscenza. Il vecchio passato che ha paura della diversità dei sessi e si difende con la supremazia dell’uomo contro il nuovo presente che concepisce la diversità come complementarità, armonia, simmetria. Il si è sempre pensato, detto e fatto così nei riguardi della donna contro la ricerca creativa di un ruolo e un posto per la donna nella società civile.
In Burkina Faso convivono due mondi: la vita rurale della grande famiglia – e tutti hanno una grande famiglia al villaggio, essenziale e poverissima, attaccata a tradizioni e credenze secolari, a volte difficili da comprendere –,e la vita urbana fatta di modernità, tecnologia, progresso. Tutti con i cellulari, pochi con l’energia elettrica in casa per ricaricare la batteria! Da una parte, le donne che non sanno leggere e scrivere e non possono aprir bocca senza il permesso del marito; dall’altra, le donne che assumono ruoli dirigenziali e di potere.
L'articolo integrale si trova nel numero di gennaio 2015 di Combonifem Magazine
Grazia Le Mura, Sociologa, vive da anni in Burkina Faso dove, grazie all’Associazione “Tante mani per… uno sviluppo solidale”, di cui è fondatrice, porta avanti progetti di promozione umana e della donna.