Licia Garotti, Avvocato Studio Legale PedersoliGattai, Socia responsabile del dipartimento di Diritto delle Tecnologie e Proprietà Intellettuale, nel comitato scientifico Hermes CSE proseguo il ciclo di interviste alle donne e agli uomini che analizzano le criticità dell’oggi con particolare attenzione alla cybersicurezza. Nelle ultimi mesi ho raccolto le opinioni di Alessandra Chirico PhD, Chirico Consulting BRXL, Cinzia Crostarosa, Engineer di TELESPAZIO S.p.A, membro CTS AFCEA Chapter of Rome; Valeria Lazzaroli, Presidente ENIA e Annita Sciacovelli, ENISA – professoressa di Diritto internazionale e specialista in cybersecurity presso l’Università di Bari ‘Aldo Moro.
Proprietà intellettuale e IAG (intelligenza artificiale generativa)?
E’ una visione necessariamente ad ampio raggio: così come gli usi dell’IAG sono molteplici. Ed anche le relative implicazioni in materia di proprietà intellettuale possono essere estremamente diversificate. L’IAG consente infatti di creare innumerevoli contenuti, quali testi, immagini, musica, ma anche invenzioni potenzialmente brevettabili e programmi informatici originali. E ciò, sempre partendo da dati di addestramento preesistenti.
Vi è allora da domandarsi chi sia, ad esempio, l’autore di un’opera (programmi informatici inclusi) o l’inventore di un brevetto. Non senza ricordare che la normativa (a livello pressoché globale) ha una visione decisamente antropocentrica della proprietà intellettuale e industriale: tale protezione è riservata a ciò che viene creato/inventato dal solo essere umano.
Che ne è allora dei diritti d’autore sull’opera generata da sistemi di IA?
Iniziamo a fare un distinguo tra le opere generate dall’IA e le opere realizzate con l’IA. Nel secondo caso, l’IA è uno strumento nelle mani dell’autore. In questo caso i diritti dovrebbero essere riconosciuti a quest’ultimo. Soprattutto laddove l’opera generata abbia “pescato” da dati di titolarità dell’autore stesso o di cui quest’ultimo possa lecitamente disporre. Per le opere generate dall’IA la risposta potrebbe, invece, essere più complessa e dipendere in larga misura dai dati utilizzati. Sotto questo profilo il Regolamento Europeo 2024/1689 (AI Act) non disciplina in maniera specifica la proprietà intellettuale. Impone comunque il pieno rispetto della Direttiva dell’Unione Europea n. 790/2019 (Direttiva Copyright), incluso il tema del text and data mining: al di fuori degli scopi scientifici, l’attività di estrazione dei dati (e del relativo uso per attività generativa) è generalmente consentita solo ove il titolare non abbia posto una riserva espressa.
E per le invenzioni?
La questione non è troppo diversa per le invenzioni che, potenzialmente dotate dei necessari requisiti di novità e altezza inventiva per essere brevettate, siano però state realizzate da (e non solo con) sistemi di IAG. Il caso Dabus è esemplare: un sistema di intelligenza artificiale non può essere nominato inventore. Ove realizzate con l’IAG il discorso potrebbe essere differente. L’Ufficio Brevetti Europeo (European Patent Office – EPO) ha, infatti, integrato le linee guida per l’esame delle domande di brevetto con un’appendice appositamente dedicata all’IA per comprendere quando l’IA fornisca effettivamente un contributo tecnico (si pensi, ad esempio, all’uso di una rete neurale in un apparecchio di monitoraggio del cuore allo scopo di identificare i battiti cardiaci irregolari).
Tornando alla domanda iniziale, credo che come ogni tecnologia, l’IA anche generativa non vada demonizzata, potendo avere il grande pregio di accelerare notevolmente il processo di innovazione tecnico-scientifica anche in ambito medico. Sotto quest’ottica e perché il progresso sia effettivamente accessibile, andrà tuttavia necessariamente ripensata l’accesso e la fruizione dei dati.
I diritti in Europa sono diversi da Paese a Paese, quale è la maggiore difficoltà da affrontare per chi vuole investire nel nostro continente?
Una delle maggiori difficoltà (ma forse direi complessità) che ci sono state riferite da chi ha valutato l’opportunità di investire in Europa è in effetti stata spesso la variegata complessità delle normative locali, anche sotto la prospettiva fiscale e di diritto del lavoro. Generalmente non è però così per la normativa in materia di proprietà intellettuale e industriale dove abbiamo, invece, una maggiore armonizzazione, così come in diversi ulteriori ambiti dove la regolamentazione è comune a livello europeo.
Enrico Letta parla del 28esimo Stato europeo, una sorta di nazione virtuale dove non esistono differenze legislative, è una possibile soluzione?
Se ho ben compreso, la proposta di Enrico Letta mira a eliminare quella frammentazione normativa che potrebbe rischiare di disincentivare gli investitori. E’ senz’altro una tesi suggestiva e ambiziosa. Credo sollevi, tuttavia, non pochi interrogativi soprattutto sotto il profilo politico e sociale. La sovranità nazionale è un principio fondamentale per gli Stati membri dell’Unione Europea: cedere ulteriormente il controllo legislativo a un’entità sovranazionale potrebbe verosimilmente incontrare non poche resistenze. Senza considerare che la diversità culturale e storica tra i Paesi europei è in realtà anche una grande ricchezza. Andrebbero quindi sviluppati meccanismi di governance che rispettino le specificità locali pur promuovendo l’armonizzazione normativa.
E’ sempre più difficile difendersi per il cittadino nel mondo digitale: Derrick de Kerckhove ha detto che avere un hacker personale sarebbe stato il nuovo “status simbol” del terzo millennio, dovremo difenderci così?
E’ un pensiero provocatorio. Potrebbe però non essere utopistico.
Allo stesso modo, temo tuttavia che non siano così tanti gli individui che abbiano effettivamente sviluppato la giusta sensibilità verso i temi di cybersecurity. Sicurezza informatica e protezione dei dati sono già elementi cruciali della nostra vita quotidiana e professionale, ma non sempre – anche all’interno delle realtà imprenditoriali di media-piccola dimensione – viene prestata la corretta attenzione al tema. Se le grandi imprese e le multinazionali sono più abituate alla predisposizione e all’implementazione di policy e strumenti idonei anche a formare i propri dipendenti, nelle realtà che rappresentano la maggioranza delle imprese italiane la questione è ancora troppo spesso sottovalutata.
Cosa consiglia alle giovani donne che desiderano emergere?
Non c’è una formula buona per tutte. E anche con la ricetta giusta non è detto che la torta riesca tutti i giorni. Forse partirei proprio da qui: non pretendere di avere i superpoteri e ricordarsi di che … l’elefante va mangiato a pezzi. Spesso già capire qual è l’obiettivo personale è un grande risultato. Che può anche cambiare nel tempo, visto che non siamo esseri statici e immutevoli e che le priorità lungo il percorso possono avere stagioni diverse. Ciò che invece non è negoziabile sono formazione, competenza e informazione. Senza, può essere difficile anche solo individuare le occasioni da cogliere. E poi chiedere, ascoltare, fare rete. Il confronto è sempre un’opportunità.
Cosa l’ha spinta ad entrare a far parte del Comitato scientifico del Centro Studi Europeo Hermes, e quale contributo vuole apportare?
Il CSE è stato fondato da Vittorio Calaprice e Davide Maniscalco. Due persone che stimo molto per competenza, professionalità e ciò che mi piace chiamare “costanza etica”. Tre criteri che devono necessariamente guidare l’approccio a qualsiasi tecnologia, a maggior ragione di fronte a sistemi vissuti come rivoluzionari. Il mio obiettivo principale è quello di promuovere un dialogo interdisciplinare che coinvolga esperti legali, tecnologi, eticisti e policy maker, così da sviluppare soluzioni che siano per le imprese concrete e sostenibili. La rapidità con cui la tecnologia evolve richiede un costante aggiornamento e una riflessione critica su come queste innovazioni impattino il quadro giuridico esistente, incluso qualsiasi potenziale diritto di proprietà intellettuale.
Intervista di Maria Pia Rossignaud
MEDIADuemila