Linda Laura Sabbadini*

da | Gen 14, 2022 | Interviste/Video

intervista dal Fatto Quotidiano del 13/01/2021

 

Sì a una donna al Quirinale. Perché?

Anzitutto perché è assurdo che non ci sia mai stata, le donne competenti ci sono e tante di valore che sarebbero perfettamente in grado di svolgere quel ruolo. È necessaria una frattura col passato, una presa di coscienza collettiva, un atto di rottura e di coraggio dei partiti che vada nel senso di assumersi la responsabilità di cambiare le cose sul fronte dei luoghi decisionali, su cui si va avanti lentissimamente su tutti i fronti. Passano gli anni e siamo sempre a rincorrere le cose, finalmente la prima donna rettrice, la prima donna ministra, c'è ancora sempre “la prima”. Dovrebbe essere la normalità. Pensate alla sanità. le donne sono il 70 per cento dei lavoratori in sanità, mentre tra i primari non arrivano al 20 per cento. Tra i professori ordinario lo stesso siamo circa al 20%.Insomma, è un problema generale del paese, è una sfida che tutto il paese deve lanciare, serve alla nostra democrazia. E' deleterio selezionare una classe dirigente del Paese in cui si dovrebbero scegliere i migliori, i più competenti, quelli che sappiano dare risposte competenti al sentire della popolazione, solo tra gli uomini.

Alcune donne sostengono che, tuttavia, in questo momento di crisi è meglio non prestarsi a fare il lavoro sporco, perché esiste il rischio di bruciarsi.

Capisco, tuttavia vorrei ricordare che la Merkel ha fatto proprio il lavoro sporco, si è presa in mano il partito e poi il governo nel momento di massima crisi, le hanno detto di sì perché gli uomini non volevano prestarsi. Quindi, penso che come donne dobbiamo avere la forza e il coraggio di sfruttare pure queste occasioni, di metterci in gioco fino in fondo, perché poi proprio in queste occasioni si riesce a portare a casa delle cose in più. Non è un caso che il leader dei social-democratici in Germania quando si è presentato alle elezioni ha detto “voglio fare la cancelliera”: un messaggio importantissimo – se lo immagina in Italia? – per le bambine e per le ragazze tedesche. Il ruolo avuto dalla Merkel, al di là delle posizioni politiche che uno può sentire più o meno vicine, è stato simbolicamente potente per tutte le donne, specie le piccole.

C’è chi tuttavia rifiuta le quote rosa in nome della retorica del merito e della competenza.

Siamo in una situazione di monopolio maschile del potere. In economia il monopolio si combatte. Perchè non deve essere combattuto nei luoghi di potere?Ormai le donne investono più in cultura, in istruzione, riescono più negli studi, se si fanno i concorsi li vincono di più. Dove non vincono? Dove vige il metodo della cooptazione oppure in politica, questo è il problema. Gli uomini scelgono gli uomini.Allora bisogna rompere il meccanismo che impedisce alle donne di gareggiare alla pari, il problema vero è che i giochi sono truccati e non si gareggia alla pari: per questo è ora che ci sia una donna. Ma insomma, quanti anni sono passati dal varo della nostra Costituzione? Costituzione in cui le nostre madri costituenti fecero mettere nella seconda parte dell’articolo 3 il riferimento a rimuovere gli ostacoli e le discriminazioni. Troppi. Quanti ancora dovremmo aspettare?

Non c’è a suo avviso una certa passività femminile?

La situazione non è facile. Ma non credo ci sia passività. Semplicemente nel momento in cui si mettono in politica sono molto di più sotto la lente di ingrandimento, molto facilmente sono oggetto di campagne d’odio, da il fatto di essere considerate invisibili quando si tratta di cariche di un certo livello. Tutta questa pressione è pesante.

Il problema della diseguaglianza tra donne e uomini, specie in merito agli stipendi, sta davvero nel fatto che le donne scelgono di più materie umanistiche?

Chiaramente le donne sono vittime degli stereotipi di genere, così come anche gli uomini. I pregiudizi purtroppo instradano sia le bambine che i bambini in ruoli prefissati. Se noi consultiamo molti libri delle primarie vediamo come siano ancora in molti casi terribili, l’uomo descritto con aggettivi di forza, la donna con aggettivi di dolcezza e di debolezza; l’uomo come capo al lavoro, la donna come casalinga, addirittura con immagini di un paese datato negli anni cinquanta. Il problema vero è questo. Gli stereotipi fanno sì che le donne siano più lontane dalle materie scientifiche fin da quando sono piccolissime, così quando proseguono gli studi “scelgono”, anche se in realtà non è una scelta, indirizzi che portano a professioni anche meno retribuite. Ciò acuisce le diseguaglianze sul mercato del lavoro. Quindi è importante agire con misure perché le donne possano essere libere di scegliere. Così come gli uomini.Non pensiamo però che questo sia un elemento risolvente dei problemi che abbiamo.

In che senso?

Il punto fondamentale restano le barriere all’accesso e alla permanenza nel mercato del lavoro, dovute a politiche che hanno totalmente sottovalutato le misure di conciliazione tra lavoro e tempi di vita e di condivisione delle responsabilità familiari. Politiche che non sono mai state portate avanti da nessuno, tant’è che noi oggi non abbiamo una rete di infrastrutture sociali, che vada dagli asili nido fino a i servizi alla persona come anziani e disabili, adeguata e capillare sui territori. E pensare che abbiamo una spesa per disabili e anziani che è un quarto della Germania e siamo al 26 per cento sui nidi. E poi ci lamentiamo drl calo delle nascite.Le donne non ce la fanno più. Tutto sulle loro spalle.

Cosa pensa dell’assegno unico?

Che sia una cosa positiva, perché eravamo caratterizzati da una situazione di forte frammentazione di misure, bonus di ogni tipo e non c’era una politica sistematica di sostegno per il costo dei figli, che non si fermasse al primo anno. Si tratta di un elemento di razionalizzazione importante, anche se dal punto di vista del finanziamento si potevano mettere più soldi, aumentare cioè l’importo complessivo.

Lei è stata molto critica invece sulla mancata riforma del reddito di cittadinanza.

Sul reddito di cittadinanza ero molto d’accordo con le conclusioni della commissione guidata da Chiara Saraceno, in particolare su due punti. Il primo punto è quello che riguarda i bambini, nel reddito di cittadinanza nella scala di equivalenza i bambini erano considerati la metà di un adulto. E questo ha fatto si che il reddito non riuscisse a dare una risposta adeguata proprio sul fronte dei minori che però da tantissimi anni sono i più colpiti dalla povertà assoluta. L’altro problema riguarda la popolazione straniera. I dieci anni messi come paletti erano troppi, e se chiaramente non puoi dare il reddito di residenza a uno straniero che è appena arrivato, la proposta dei cinque anni era corretta. Il fatto è che nella crisi pandemica – se n’è parlato pochissimo purtroppo – la situazione degli immigrati è peggiorata molto di più della situazione degli italiani e in particolare è peggiorata quella delle donne straniere. E la povertà assoluta è aumentata molto, siamo arrivati al 30 per cento delle famiglie con almeno uno straniero che è in povertà assoluta. Ciò è dovuto anche al crollo dell’occupazione femminile straniera impiegata nei servizi alle famiglie, i più colpiti dalla pandemia.

Ma la drastica denatalità italiana è dovuta solamente al mancato welfare?

Le motivazione del non avere figli sono molteplici. Io penso che la denatalità sia figlia della scarsa attenzione che è stata data alle politiche sociali nel nostro paese. Guardiamo ai numeri: nel 1964 abbiamo raggiunto il picco delle nascite, eravamo circa a un milione 35.000 nati. Dopo il picco degli anni Sessanta è iniziata una lunga fase di decrescita che inizialmente non era molto accentuata, poi lo è diventata fino al 1986, poi ci sono stati un po’ di alti e bassi: il minimo lo abbiamo raggiunto nel 1995, ma si trattava di un poco più di mezzo milione di nascite. Dopo quell’anno c’è un po’ di recupero fino nel 2008, quando arriviamo a 570.000. Da quel momento ricomincia la fase di decrescita senza fine: nel 2020 siamo arrivati a 404.000 e nel 2021 andremo ancora più sotto, vista la pandemia. Questo ci dice che non si tratta di un problema di adesso, è un lungo percorso di permanente bassa fecondità. Nessuno ci ha fatto i conti. E ora le lacrime del coccodrillo.

Quali sono le conseguenze?

Se le nascite sono così basse, tra 25-30 anni ci saranno solo 200.000 donne che potranno aver un figlio, a 25.30 anni dal 1964 sarebbero state 500.000. Questo vuol dire che oddi le donne 25.30enni dovrebbero fare molti più figli di quelle precedenti madri del ‘64, cosa non credibile, visto anche che tra l’altro non ricevono sostegno per la cura dei figli e della popolazione anziana. Ma la cosa grave è un’altra e cioè che c’è una forte differenza tra il numero reale di figli – 1.2 – e il numero desiderato: l’Italia ha uno scarto enorme, infatti il numero desiderato dalle donne è due. E allora non è vero che la gente non vuole fare i figli, è quindi è anche inutile fare appelli ad averli, visto che nelle indagini Istat viene fuori che solo il 5 per cento non ha intenzione di averne.

Come si risolve questo problema? Con una immigrazione controllata?

Io direi che si risolve una volta per tutte dandosi una strategia di sostegno al costo dei figli reale e soprattutto mirata ad aiutare le donne a liberarsi del carico di lavoro familiare e inserirsi meglio nel mercato del lavoro, senza dover rinunciare al lavoro per la nascita di un figlio (perché oggi si tratta sempre di una donna su cinque che lascia il lavoro dopo la maternità). Mi chiedo: perché si sono messi tanti soldi nelle infrastrutture economiche del Pnrr, ma non nelle infrastrutture sociali? Perché queste ultime vengono considerate un costo e non un investimento? Lo dico chiaramente: fino a quando noi penseremo che investire in politiche sociali sia un costo non risolveremo né il problema di affermazione delle donne e del loro inserimento nel mercato del lavoro – siamo penultime in Europa come tasso di occupazione femminile – né il calo delle nascite. Sono due cose profondamente legate, ma ancora non l’abbiamo capito.oppure non lo vogliamo capire.

*Direttora centrale ISTAT