LUCIA GORACCI

da | Gen 3, 2014 | Interviste/Video

Giornalista e invitaa di guerra, intervistata da Nicola Galli

Le Città Delle Donne incontra Lucia Goracci, giornalista e inviata di guerra per varie testate Rai e RaiNews. Attraverso il suo occhio e la sua penna possiamo porre il nostro sguardo sull’umanità che soffre nei vari conflitti sparsi per il globo.

Quale è stato il percorso che l’ha fatta approdare al giornalismo?

Credo che tutto sia cominciato la prima volta che ho preso una penna in mano. O forse un pennarello, così come lo impugnano i bambini. Voglio dire: da quando scrivo, so che scriverò per mestiere. Per vocazione, per necessità esistenziale. La scoperta, la conoscenza viaggiando, è parte integrante di questa necessità. Ancora non sono riuscita a capire se viaggio per scrivere o scrivo per viaggiare.

Com’è la situazione del giornalismo femminile in Italia? Si può fare un paragone con la situazione all’estero?

Ritengo, intuitivamente, senza dati alla mano, che il livello di affermazione professionale della giornalista italiana sia nella media del mondo occidentale. Abbiamo tanti esempi di professioniste talentuose e di successo. Anche tra le inviate nelle aree di crisi. Tante guerre ci sono state e ci vengono raccontate da valenti inviate. Forse c’è ancora una resistenza culturale. Della donna si ha sempre una difficoltà in più a dire che è coraggiosa, si tende semmai a dire che rischia molto. Ma pensiamo alla determinazione, all’incapacità di accontentarsi dell’evidente e al senso etico del giornalismo che avevano donne straordinarie come Ilaria Alpi o Maria Grazia Cutuli e capiamo cosa intendo.

Da tempo, le sue corrispondenze provengono dai luoghi caldi del pianeta, dove si combatte e si lotta. Essere corrispondenti di guerra è una vocazione?

La vocazione la lasciamo ai religiosi, ma certo occorre essere fortemente motivati. Il giornalismo così declinato raramente prelude a grandi carriere e più spesso, semmai, comporta discussioni snervanti per andare in onda, o perché nel giornale si trovi spazio, uno spazio sempre più facilmente occupato dalla politica o dalla cronaca. Per me è sempre stato l’unico progetto. Avevo nove anni quando lessiNiente E Così Sia di Oriana Fallaci, sulla guerra in Vietnam, e capii che avrei fatto quello. Tutta la mia vita, i miei studi successivi, sono stati finalizzati a quel progetto. È faticoso, è rischioso e a consuntivo forse non ricevi tutto quello che dai. Ma sei al cospetto della storia nel momento in cui essa avviene. Non vi è privilegio più grande.

Ho notato che i suoi reportage hanno sempre un occhio di particolare riguardo verso le donne. Raccontano le loro storie e fanno sentire la loro voce. Le donne sono ancora le più sfruttate e le vittime principali dei conflitti?

Le donne sono le persone che con le guerre più direttamente e ininterrottamente devono misurarsi. Le guerre piovono loro addosso, quasi mai sono loro a deciderle, le subiscono. L’uomo combatte, la donna deve riparare ciò che la guerra distrugge. Mi vengono in mente le mamme di Gaza, che facevano studiare i loro bambini alla luce delle candele, durante i bombardamenti di Piombo Fuso (2008-9). Le donne di Misurata, in Libia, che fuggivano dai saccheggi e dalle aggressioni spesso senza riuscire neanche a mettersi qualcosa addosso prima di lasciare casa. Ricordo l’imbarazzo con cui raccontavano questo, vista anche la società conservatrice da dove provenivano. Era doppiamente commovente vedere come questo imbarazzo, questo umanissimo pudore, veniva sconfitto dal desiderio di far sapere.

In questi anni i suoi viaggi nei paesi a maggioranza musulmana sono stati molto frequenti, siano stati essi zone di guerra (Libia) o frontiere internazionali (Iran). Si tratta di un mondo che è generalmente considerato monolitico e appiattito ma che in realtà è molto più complesso e sfaccettato di quanto crediamo. Si può tracciare una sorta di evoluzione che questi Paesi stanno seguendo e verso quale direzione?

È un’evoluzione accidentata, segnata da progressi, battute d’arresto e ripiegamenti. Il 2013 appena trascorso sarà probabilmente ricordato come l’anno della sconfitta dell’Islam politico e della nuova ascesa dell’islamismo radicale, nelle società politiche uscite da quelle che convenzionalmente si chiamano Primavere Arabe, ma che io preferisco, seguendo la letteratura scientifica araba, connotare come Risvegli Arabi. La strada è lunga e tortuosa, ma è un grave errore epistemologico trasformare la nostra paura (nostra come Occidente) dell’ignoto, o peggio, il rimpianto per lo status quo ante, in una condanna definitiva di quelle primavere, condanna priva assolutamente di fondamenta scientifiche.

Si può tracciare anche un’evoluzione della condizione femminile?

In chiaroscuro anch’essa. Con una pericolosa verità da rilevare: ogni volta che l’ancien régime tenta dei colpi di coda, inesorabilmente prende di mira conquiste e diritti femminili.

Il cambiamento, il furore giovanile, è ormai arabo?

Libertà, dignità, giustizia sociale, sono istanze universali e universalmente reclamate. Nel 2009 in Iran, paese musulmano ma non arabo, furono avanzate richieste molto simili, anticipando i tempi delle rivolte degli arabi. Perché non succede nelle nostre piazze, tra i nostri giovani? Domanda valida solo in parte, se si guarda cosa è accaduto la scorsa estate nelle piazze brasiliane o turche. Ritengo che una risposta possibile sia nel diverso livello di esasperazione. La ribellione dei giovani arabi è stata innescata da un grado di disperazione e rabbia che probabilmente i nostri giovani, complice la rete di protezione tessuta dalle famiglie, non conoscono ancora.

Essere corrispondente di guerra espone a mille rischi e purtroppo molti suoi colleghi ogni anno in tutto il mondo pagano con la vita la loro ricerca della notizia, della verità; vittime di casuali incidenti o deliberatamente colpiti per il mestiere che fanno. Le è capitato di sentire la propria vita in pericolo?

Più di una volta. Il pericolo è inevitabile, perché il nostro obiettivo è avvicinarci il più possibile al luogo dove le cose accadono. Quando lo fai, come quasi sempre mi capita, al seguito non di eserciti regolari ma di forze rivoluzionarie, di guerriglia, i sistemi cosiddetti early warning sono praticamente inesistenti. In Libia, al seguito dei ribelli, procedevamo alla cieca. Neanche sapevamo cosa stesse accadendo a una manciata di chilometri da dove ci trovavamo. La differenza l’hanno fatta sempre circostanze casuali e favorevoli. Non credo nel destino. Mi è semplicemente andata bene.

Anni fa, il grande inviato di guerra britannico Robert Fisk dell’Independent scrisse un pezzo in cui criticava i suoi colleghi e li definiva ‘giornalisti da hotel’ denunciando la loro scarsa voglia di scendere nelle strade e in mezzo alle guerre e a suo dire preferendo sostare nelloro camere d’albergo.

Negli alberghi si va a fine giornata, a dormire. Quando ci sono. Spesso devi accontentarti del sacco a pelo e di una copertura che ti protegga dalla pioggia.

Che idea ha del giornalismo e dei giornalisti ‘embedded’? è anche un giornalismo ‘imbavagliato’ e poco libero?

Il primo corrispondente di guerra fu l’inviato del Times di Londra William Russell sul fronte della guerra di Crimea. Le truppe di sua maestà britannica ce lo portarono volentieri, immaginandosi che con le sue corrispondenze avrebbe magnificato l’eroismo dell’esercito inglese. Invece quello si mise a scrivere del freddo e dei pidocchi, della fame e del fango nelle trincee. Raccontò la battaglia di Balaklava del 1854, le cariche in cui i fanti inglesi vennero mandati al macello contro l’artiglieria dello zar di Russia, con realismo vividissimo. Questo per dire che il giornalismo embedded, che non prediligo, ma non metto all’indice, se fatto onestamente e senza mai nascondere al lettore che il proprio punto di osservazione è limitato e selezionato da un esercito, può avere e ha la sua valenza informativa.

Ci sono dei corrispondenti di guerra italiani che L’hanno ispirata o il cui lavoro ammira? Penso tra gli altri a Ettore Mo e alle sue corrispondenze dai Balcani o dal Caucaso, a Tiziano Terzani, un profondissimo conoscitore dell’Asia, a Oriana Fallaci, che fu una delle prime donne ad affrontare i pericoli di questo mestiere e che ha ispirato a sua volta la corrispondente della CNN Christiane Amanpour, come quest’ultima affermò inaugurando a New York la mostra dedicata alla giornalista italiana.

Fallaci, Kapuscinski, Terzani e tanti ancora in vita, che non cito per non urtare la sensibilità dei pochi che dimenticherei.

Ci sono tante donne che come lei fanno il corrispondente di guerra. Lilli Gruber scrisse ne ‘I Miei Giorni A Baghdad’ che c’erano delle zone di guerra dove non andò e invece andarono suo marito, il corrispondente francese Jacques Charmelot, e il succitato Robert Fisk. Ci sono dei limiti per le donne più che per gli uomini?

Non vi sono luoghi dove non sono andata perché donna.

Com’è l’Italia vista da fuori? Che percezione si ha del nostro paese?

Arcaica. Ripetitiva. Macchiettistica. Difficile da comprendere e ancora di più da spiegare.

Quale città predilige e quale vede come più in evoluzione.

Istanbul è la città dove mi sento più a casa e anche quella che meglio rappresenta la mia continua tensione tra Occidente e Oriente. Tra le città in evoluzione penso a quelle dei Brics (Rio de Janeiro, per esempio). A giudicare da quanto è accaduto al Soccer City di Soweto, dove nel dare l’ultimo saluto a Nelson Mandela hanno preso la parola in molti, ma non rappresentanti dell’Europa, il futuro è loro.