di Linda Laura Sabbadini
Ci si lamenta del calo della natalità. Ma non possiamo meravigliarcene se solo pensiamo che prezzo pagano le donne che fanno figli sul piano del lavoro Avere un figlio è fortemente penalizzante. Lo sappiamo dalla vita quotidiana, lo sappiamo dalle statistiche dell’Istat e dell’Inps. Lavorano, secondo l’Istat, il 54,5% delle madri tra 25 e 64 anni. Sapete quanti padri? L’83,5%, 30 punti in più. Un divario enorme. La penalizzazione è esplicita sul fronte della partecipazione al lavoro, ma riguarda anche i redditi da lavoro nel caso delle madri e non dei padri. Non succede solo da noi, la differenza di reddito da lavoro c’è dappertutto, persino nei paesi nordici, dove la penalità si aggira intorno al 25% tra madri e padri.
Nel Rapporto del presidente dell’Inps,Pasquale Tridico, presentato ieri, viene stimato il «costo» della maternità per una donna che lavora. Si parte da un campione di lavoratrici dipendenti del settore privato di pari età , competenze e salari prima della eventuale nascita di figli e si analizzano le madri e le donne senza figli a distanza di 15 anni. E così si calcolano le differenze nel numero di settimane lavorative, nella percentuale di donne in part time, nei salari medi annuali e settimanali.
Dall’interessante studio Inps, condotto dalla prof. Alessandra Casarico, emerge che gli effetti della nascita di un figlio sono permanenti, duraturi, lasciano il segno, non si riassorbono nel lungo periodo. L’incremento dei salari arriva a dimezzarsi rispetto alle donne senza figli. Ciò è dovuto in primo luogo a un minor numero di settimane lavorate e quindi retribuite (35,1%), poi al passaggio al part time (11,5%), e infine alla riduzione del salario settimanale (6%).
Il che significa che avere un figlio provoca soprattutto meno giornate dedicate al lavoro (11 settimane all’anno in meno), vuoi per le difficoltà di conciliazione e condivisione, con maggiori interruzioni lavorative, vuoi per le frequenti transizioni tra lavoro regolare e irregolare e per la maggiore precarietà, stagionalità. Avere un figlio aumenta, cioè, la probabilità di marginalizzazione delle donne sul mercato del lavoro, diminuisce le probabilità di carriera, porta alla rinuncia di incarichi e aumenta la probabilità di utilizzare il part time.
Tutto torna, purtroppo. Sapevamo già dai dati Istat che il 20% delle madri interrompe il lavoro dopo la nascita dei figli. Sapevamo che le madri rinunciano ad incarichi più frequentemente, che le madri lavoratrici assorbono il 67% del lavoro famigliare prodotto dalla coppia, che in questo Paese non è affermato il valore sociale della maternità e della paternità. Scarso supporto al costo dei figli, scarsa attenzione all’assistenza di anziani e disabili. Scarso investimento sui servizi educativi per la prima infanzia. Solo il 12% dei bimbi vanno a nidi pubblici, si arriva al 23% se si considerano i privati. Tanto ci sono le donne che provvedono. Madri, figlie, nonne. Come se non lavorassero, o non volessero realizzarsi su tutti i piani.
Ma allora che aspettiamo? Perché non reagiamo a questa permanente ingiustizia? Il Covid ha peggiorato il sovraccarico di lavoro familiare delle donne. Molte di loro hanno dovuto lavorare e prendersi cura dei figli in tutto il periodo di lezioni a distanza nelle stesse ore. Perché non agiamo con determinazione con un grande piano di infrastrutture sociali, nidi, tempo pieno, assistenza per anziani, disabili sui territori in un’ottica di welfare di prossimità? Crescerebbe l’occupazione femminile, diminuirebbero le disuguaglianze tra bambini, tra anziani, tra disabili, diminuirebbe la povertà. Aumenterebbero le nascite, perché il desiderio di avere figli c’è, ma non si traduce in realtà. E aumenterebbe il benessere collettivo. Vi pare poco?
Editoriale di LINDA LAURA SABBADINI*
La Stampa 30 Ottobre 2020
* Direttora centrale Istat. Le opinioni qui espresse sono esclusiva responsabilità dell’autrice e non impegnano l’Istat