L’associazione Ciao gestisce una delle due sole strutture del genere in Italia. Tre appartamenti per donne ai domiciliari o in attesa di giudizio e i loro figli. Dunque, esiste un posto dove bambini condannati alla galera possono vivere come veri bambini, e non è una galera. Ma solo un bambino con una madre detenuta capisce questa differenza.
Il carcere, con la sua non evitabile durezza, e la casa famiglia protetta di via Magliocco, periferia sud di Milano. Non ce ne sono altre, a parte una a Roma che ha caratteristiche simili, ma questa è stata la prima in assoluto, voluta da una coppia tenace – Elisabetta Fontana e Andrea Tollis – che la manda avanti da anni con l’associazione Ciao, e in questa Casa non c’è neanche una sbarra, o un cancello blindato. Non è un carcere, eppure accoglie donne detenute con figli, ospitati in tre appartamenti, tra stendini per la biancheria, i giocattoli, la bicicletta nell’androne, la cucina comunitaria.
Non sono tutte rose e fiori, come capisce anche un bambino – Poi, non sono tutte rose e fiori, come capisce anche un bambino. Le madri, ai domiciliari o colpite da una misura cautelare per reati anche gravi, come lo spaccio e l’omicidio. Un cartello, all’uscita, raccomanda loro di telefonare alla polizia o ai carabinieri per segnalare che si sta uscendo dalla struttura, così stabilisce la legge. Ogni spostamento all’esterno va sempre comunicato, e se è vero che ogni persona ai domiciliari ha comunque la possibilità di uscire di casa tra le 10 e le 12, poi ci sono gli altri permessi da chiedere alla magistratura, per accompagnare i figli a scuola o a fare sport, o per una visita medica. La priorità sono i bambini, “ a loro va garantita una vita normale”, spiega Fontana alla sottocommissione carceri del Comune di Milano, nei giorni scorsi in visita-sopralluogo, guidata dal vicepresidente Alessandro Giungi – un avvocato – che appena messo piede dentro spiega che “un bambino in carcere non ci dovrebbe proprio stare”, ma per fortuna esiste un posto così.
Esistono fondi statali per sovvenzionare questi progetti – Ce ne potrebbero essere anche altri, oltre alle varie comunità che si fanno carico del problema, e nel rispetto della legge 62/2011, che prevede la possibilità di espiare anche un terzo della pena (e per le madri ergastolane, 15 anni di detenzione) in un istituto a custodia attenuata per detenute madri. Poi, non si capisce perché in tanti anni siano nate solo due strutture come questa, in tutta Italia.
E che quella milanese non abbia contributi pubblici, a parte l’intervento del Comune di Milano per la retta dei minori seguiti dai Servizi sociali. Esistono fondi statali per sovvenzionare questi progetti, ma la Regione Lombardia non li ha mai chiesti, e quindi non li ha mai ottenuti. Il Lazio ha ricevuto circa 900mila euro, la Lombardia per ora zero, bisogna vedere se li avrà nella prossima tornata di assegnazioni.
La onlus Ciao campa grazie alle raccolte fondi – La onlus Ciao campa quindi grazie alle raccolte fondi, all’intervento di alcune fondazioni, a iniziative come la Milano Marathon (quasi 8mila euro), e così va avanti dalla fine degli anni Novanta, “già nel ‘ 95 accoglievamo detenuti, dal 2011 anche le madri con figli. Nel 2016 la prima convenzione ufficiale, poi sottoscritta dal tribunale ordinario, da quello di sorveglianza, dalla procura, dal tribunale per i minorenni”, spiega Andrea Tollis. “ Le donne ci vengono segnalate dal carcere di Bollate e dall’Icam”, e qui bisogna spiegare che l’Icam di Milano (Istituto a custodia attenuata per detenute madri) venne creato in via sperimentale nel 2006 da Luigi Pagano, già direttore di San Vittore e poi provveditore delle carceri lombarde. Unica struttura italiana a non essere dentro il carcere, ma in una palazzina in tutt’altra zona di Milano, seppure con sbarre cancelli e polizia penitenziaria, anche se non in divisa.
In tanti anni ci sono state solo tre evasioni – Qui non ci sono agenti, eppure in tanti anni ci sono state solo tre evasioni. Tre donne che hanno preso su i figli e se ne sono andate. Una, riarrestata, ha poi chiesto di tornare qui, “e noi l’abbiamo riaccolta”, dice Fontana. Chi sono, sono “ autrici di reati, e vittime di abusi e violenze. Arrivano da situazioni famigliari difficili, di emarginazione sociale. Spesso analfabete, spesso straniere”. Dire che sono “la parte svantaggiata della società, è un eufemismo”.
Persone “da ricostruire”, con l’intervento delle educatrici, delle psicoterapeute – Persone “da ricostruire”, con l’intervento delle educatrici, delle psicoterapeute, fino al raggiungimento dell’autonomia (dalla famiglia, soprattutto), una volta scontata la pena. Imparano un lavoro vero, come sarte o pasticcere, poi provano una vita nuova assieme ai loro figli, che l’altra mattina erano tutti a scuola o all’asilo. Una sola donna presente, delle sei attualmente ospiti (con 7 bambini), divise nei tre appartamenti di cui hanno la responsabilità e la cura. Una ragazza di meno di trent’anni, ancora in vestaglia e ciabatte, capace di dire solo ciao e grazie (per la visita, per avere una casa, per la gentilezza), e di cui non diciamo la nazionalità, e nemmeno il nome.
La Repubblica, 17 aprile 2023