Parlano di noi!

da | Giu 23, 2010 | Editoriali

L’unica parità che ci è consentita in un mare di disparità: andare in pensione alla stessa età.   

In una notizia dell’agenzia  Apcom del 7 giugno leggiamo che la commissaria europea alla Giustizia e ai Diritti, Liliane Reding, “ha insistito durante un incontro oggi a Lussemburgo con il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, sulla necessità che l’età pensionabile delle donne sia equiparata a quella degli uomini nel settore pubblico italiano ‘entro 2012”. La commissaria – ha detto il portavoce, Matthew Newman, comprende che l’Italia ha delle difficoltà immediate in questa direzione, ma dovrà ottemperare alla sentenza della Corte europea di Giustizia.’ La Reding ha anche suggerito che la nuova legge venga inserita nell’ambito della manovra finanziaria, visto il notevole risparmio che comporterebbero gli adeguamenti dell’età pensionabile delle donne. Le modifiche legislative possono essere combinate con le misure di consolidamento di bilancio che l’Italia ha già annunciato, ed ha osservato ancora che tutti gli stati membri devono essere trattati in modo uguale. Capiamo che l’Italia deve adottare una nuova legislazione, ma insistiamo sul fatto che vi sia un periodo di transizione breve: la nuova legge – ha concluso Liliane Reding – deve entrare in vigore e essere applicata entro il 2012.
 
Ovvero questo significa che entro la data indicata dovrà essere effettiva l’equiparazione dell’età pensionabile per i due sessi senza ulteriori periodi di transizione.
Dell ‘equiparazione dell’età pensionabile se ne parlava già da tempo. Ma mentre alcuni la ritenevano una misura necessaria per porre fine ad una situazione di presunto svantaggio che costringeva le donne a ritirarsi prima e, quindi, a ricevere una pensione di importo minore, la verità è che dietro questa esigenza si è celato sempre un conto di risparmio di spesa.
La possibilità  di scelta tra i 60 e i 65 anni  per andare in pensione, come una possibilità e non un vincolo, era storicamente motivata, oltre che come una forma di compensazione del carico di lavoro domestico e di cura svolto dalla forza lavoro femminile, anche dalle profonde diseguaglianze di genere sul mercato del lavoro nonché dall’esigenza di uniformare le età effettive di uscita dal lavoro delle donne.
In Italia si era riacceso un dibattito piuttosto vivace quando la  Corte di Giustizia Europea ha stabilito l’equiparazione dell’età di pensionamento tra uomini e donne giudicando sostanzialmente l’Italia inadempiente nell’applicare l’articolo 141 del Trattato CE, che stabilisce: «Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra lavoratori di sesso maschile e quelli di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore ».

Il principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale, è disciplinato dalla direttiva 79/7/CEE che sancisce l’assenza di qualsiasi discriminazione in base al sesso ma lasciava la facoltà agli Stati membri  di mantenere età di pensionamento diverse per gli uomini e le donne.
La Direttiva a cui si fa riferimento oggi, si applica ai regimi legali, e non ai regimi cosiddetti professionali. In questo caso dunque, la Corte ha stabilito che la pensione percepita dai lavoratori pubblici è da considerarsi professionale, venendo corrisposta dallo Stato in quanto ex-datore di lavoro. Per i lavoratori del settore privato iscritti all’INPS, invece, la Comunità Europea non è in grado di imporre età di pensionamento uguali per uomini e donne, e dunque continuano a valere le regole precedenti.

Questa indicazione ben si collega ai provvedimenti che il governo ritiene necessari alla manovra che si cercherà di mettere in atto per risanare la situazione economica, che è quanto meno imbarazzante da comprendere in tutto il suo arco di motivazioni.

Quello che possiamo però dire di sicuro, è che delle donne, dei loro problemi, della loro capacità produttiva, dell’apporto economico dato dal lavoro familiare, dalla personale sostituzione od integrazione di servizi sociali, da decenni lamentata e mai considerata nella sua gravità e nella sua totalità, nessuno ne ha mai fatto un cavallo di battaglia.

Anzi, spesso a queste richieste si è messo un bavaglio e sono state considerate battaglie da apartheid e di serie B.
Questa volta è diverso. Il governo dovrà pur rispondere al  diktat dell’Ue e non potrà certo rischiare la procedura d’infrazione comunitaria.

Dunque, signori ministri al lavoro, dateci sotto, parlate di noi, sparlate di noi, taglieggiateci, tartassateci, richiamateci ai nostri  ulterioridoveri, che siamo abituate ad essere immolate per l’interesse comune.

Abbiamo capito che, se ubbidirete, questa sarà probabilmente l’unica parità che ci è consentita in un mare di disparità.

Dols, maggio 2010