Pensioni:ancora disparità. Uomini e donne andranno in pensione a 65 anni, ma non c’è parità di genere

da | Gen 28, 2013 | Editoriali

A partire dal 2022, in modo graduale, le donne andranno in pensione a 65 anni come gli uomini. Dunque la parità di genere nel mondo del lavoro è stata raggiunta? No.

La decisione riportata in questa manovra economica, che prevede di portare in avanti l’età di pensionamento delle lavoratrici di tutti i settori, non è dovuta affatto al riconoscimento di una parità di diritti e di trattamento fino alla pensione.

Perché non è in discussione la disparità di genere che ancora vige all’interno delle carriere, o la parità di stipendio a parità di lavoro, o le pari opportunità, ma solo la fine del rapporto lavorativo.

Le donne andranno in pensione più tardi solo per quella che è stata ritenuta un’opportunità per il risanamento del Paese, ormai allo stremo.

Come in guerra! Quando le donne hanno dovuto rimboccarsi le maniche ed intervenire nel periodo della ricostruzione per sostenere e sostituire ciò che altri non riuscivano (o purtroppo non potevano) fare. Le donne considerate come mano d’opera necessaria, da sfruttare fino allo stremo prima di disfarsene. 

Quello che non è stato considerato e non si dice è che l’innalzamento dell’età pensionabile delle donne non sarà un fatto senza conseguenze, anche dolorose.

In particolare questo cambiamento avrà una forte ed inevitabile ricaduta sociale dal momento che ‘il sesso debole’ non solo è presente nel mercato del lavoro, ma ricopre contemporaneamente ruoli di cui la società non può e non potrà (salvo una lungimirante riforma del welfare) fare a meno.

Le donne sono madri, accudiscono gli anziani, i malati, sostituiscono la carenza di servizi territoriali. Si dice che campano di più. Forse troppo? E per fortuna. Ma il risultato è l’idea che ‘più hai da vivere, più vai sfruttata’. 

I costi di questa manovra saranno quindi pagati, direttamente o indirettamente ed in modo sproporzionato, ancora una volta dalle donne. 

Da almeno due decenni si è discusso del problema della conciliazione tra famiglia e lavoro, dei tempi e dei ruoli, delle responsabilità familiari, della necessità di servizi sostitutivi di cui non si è ancora vista una sufficiente realizzazione.

L’Europa ci richiama?

Ma gli altri paesi europei hanno un diversa organizzazione sociale, in cui non si prevede che madri, suocere, sorelle, cognate e costose colf sostituiscano i servizi assistenziali, assenti. Il contributo che le donne hanno sempre dato, e che ancora oggi offrono, è costituito da grandi sacrifici, ma spesso non ne viene riconosciuto l’elemento umano e il valore economico. Non si considerano mai questi fattori, che mettono l’universo femminile in una condizione di obbligo che esula dal contesto lavorativo tradizionale. 

Ha ragione la sociologa Chiara Saraceno a ribadire che “le donne appaiono nell’agenda politica come lavoro gratuito dato per scontato (e se possibile intensificato) e come responsabili di una spesa pubblica fuori controllo. Cittadine diseguali cui si chiede di pagare costi aggiuntivi per la propria disuguaglianza”. 

Viene da domandarsi se, visto che le donne possono fare tutto (sostenere il welfare, lavorare, andare in pensione come gli uomini), non sarebbe giusto anche farle governare per cambiare le iniquità presenti oggi, confermate da una manovra che per inseguire l’emergenza non si preoccupa di avviare i cambiamenti di cui le donne sono portatrici.

Non nell’interesse di un genere ma di tutta la società.

 L’Indro, 9 settembre 2011