di Linda Laura Sabbadini
Il 1° dicembre 1970 passa la legge sul divorzio. Si apre la grande stagione dei diritti civili e sociali conquistati.
Dopo 50 anni è ora di aprire una nuova stagione dei diritti per creare i presupposti perché i diritti e le libertà conquistate siano veramente fruibili da tutti. Basta pensare all’arretratezza della situazione delle donne.
Meno della metà lavora e non c’è verso di aumentare seriamente i posti nido e le infrastrutture sociali. Sono stati stanziati 100 milioni in legge di bilancio dal 2022,che si incrementano di 50 milioni l’anno fino al 2026. Sono a regime, è vero ma sono pochi. Bastano per l’incremento di un solo punto percentuale dell’offerta nel primo anno.
Andiamo per ordine.
Negli anni ’70 in soli 9 anni è avvenuta una vera e propria rivoluzione nei diritti. Nel 1970, oltre al divorzio, si varò lo Statuto dei lavoratori, un anno dopo, la tutela delle lavoratrici madri, con il permesso di maternità e il divieto di licenziamento in gravidanza. E sempre in quell’anno, l’istituzione della scuola a tempo pieno, i nidi pubblici 0-3 anni. Nel 1972 l’obiezione di coscienza, con il Servizio civile. Nel 1973 la tutela del lavoro a domicilio, nel ’75 il nuovo diritto di famiglia, non più un capofamiglia padre padrone, ma pari diritti e doveri per uomini e donne, almeno sulla carta, ma importante, molto importante! Sempre nello stesso anno la legge sui consultori e poi la riforma penitenziaria, la prevenzione, cura e riabilitazione della tossicodipendenza.
Ma non è finita. 1977, legge sulla parità tra uomini e donne sul lavoro. Un anno dopo, la riforma sanitaria basata sul circuito prevenzione-cura-riabilitazione. Il diritto alla salute. E poi, la legge contro la piaga degli aborti clandestini, l’interruzione volontaria della gravidanza. E ancora la legge Basaglia.
Vi rendete conto? Un concentrato di diritti e di progresso civile e sociale che ha profondamente cambiato il nostro Paese. Oggi dobbiamo fare i conti con una vera e propria piaga della nostra democrazia. Leggi non applicate, norme che rimangono sulla carta. Anche perché semplicemente non vengono finanziate. Un vizio tutto italiano che sta colpendo in primis le donne ma anche bambini, anziani e disabili.
I nidi servono ai bimbi, per il loro percorso formativo, servono alle loro madri, per avere meno carico di lavoro familiare, e poter più facilmente lavorare, servono al Paese perché contribuiscono alla giustizia sociale, ma anche alla crescita economica. Investire sui nidi e le infrastrutture sociali ha un effetto moltiplicatore di perequazione e di contrasto alle diseguaglianze.
Diseguaglianze drammatiche come descritto nell’inchiesta di oggi sul nostro giornale.
Il Comitato Colao aveva proposto di agire tempestivamente e di darsi l’obiettivo del 60% di copertura dei nidi. Il segretario del Pd Zingaretti si è dichiarato più volte d’accordo proprio sul 60%, e così Leu ed esponenti dei 5 stelle.
Ma allora mi spiegate perché sui nidi il governo ha stanziato solo 100 milioni, per il 2022? E mi spiegate anche perché nell’ultima bozza di documento sul Recovery è prevista una cifra di 0,9 miliardi per i nidi?
Cioè il nulla?
Ve lo dico io, perché. C’è una resistenza culturale profonda a tutto ciò che riguarda la parità di genere e le infrastrutture sociali. Non è nelle priorità. E poi ci si lamenta del calo della fecondità. Ma che dovrebbero fare le donne senza un minimo di sostegno dei servizi da decenni? Che dovrebbero fare senza nessuna politica di condivisione dei carichi familiari? E in più senza neanche il lavoro. Emendate la legge di bilancio, siate trasparenti sulla cifra di copertura dei nidi a cui volete arrivare. Cambiate il documento del Recovery e aggiungete un settimo pilastro sulla parità di genere.
Finanziatelo adeguatamente. Siamo ancora in tempo.
Oggi abbiamo bisogno di una rivoluzione come quella negli anni 70, i diritti devono essere effettivi. Una rivoluzione che parta dalle donne che sono la metà del Paese e anche degli elettori.
Linda Laura Sabbadini è direttora centrale Istat.
Le opinioni qui espresse sono esclusiva responsabilità dell’autrice e non impegnano l’Istat
La Repubblica
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