Risponde di tentata violenza privata il datore che mobbizza la neomamma per indurla a dimettersi
L’effetto intimidatorio configura l’ipotesi di reato
La condotta del datore di lavoro che costringe la neo mamma, per ottenere le dimissioni, a lavorare in un luogo fatiscente e abbandonato, configura l’ipotesi del reato di tentata violenza privata. Lo ha sancito la Cassazione con la sentenza 36332 del 21 settembre 2012.
La quinta sezione penale, in linea con la Corte d’appello di Catania, ha ritenuto l’80enne responsabile di tale reato nei riguardi di una dipendente che, appena rientrata dal periodo di astensione obbligatoria per maternità, l’ha fatta lavorare in condizioni invivibili in un luogo in degrado, compiendo atti "idonei e univocamente rivolti a farle accettare le condizioni della società" (o le dimissioni o il prolungamento del periodo di maternità con retribuzione solo del trenta per cento dello stipendio), l’unica dipendente che non aveva accettato di dare le dimissioni e rimasta nella società che i titolari avevano intenzione di far cessare per proseguire nella stessa attività sotto una nuova veste societaria ma con lo stesso complesso aziendale e con gli stessi dipendenti licenziati e assunti nuovamente. Insomma, per Piazza Cavour la condotta del datore, ossia di convocare la dipendente in un posto fatiscente e trascurato, «in una stanza con la scrivania impolverata perché solo quello lei meritava, per la sua ostinazione a dimettersi», prospettandole una situazione lavorativa e personale deteriore, ha configurato il reato di tentata violenza privata. La Suprema corte ha annullato senza rinvio la sentenza perché il delitto si è estinto per prescrizione nel termine di sette anni e sei mesi respingendo il ricorso relativamente alle statuizioni civili.