Quando lo stare al mondo sfida l'immaginario al ribasso, della regista Costanza Quatriglio
Ovunque le donne hanno spazio quando questo non intacca quello più ampio in cui confermare o consolidare la visione dominante. Ma la crescita del documentario al femminile ha compensato la mancanza di narrazione e sta cambiando i connotati del cinema italiano. E questo vale per tutti. E' una questione di punti di vista. Se l'identità è data per differenza è indiscutibile che esista uno sguardo al femminile, in quanto è certo che esistano le femmine. Credo però che la questione delle narrazioni di genere ne contenga una molto spinosa, che ha a che vedere con il sistema produttivo “tout court”.
Le statistiche parlano chiaro e le considererei il punto di partenza di questo ragionamento. Ovunque le donne hanno spazio, quando questo non intacca quello più ampio in cui confermare o consolidare la visione del mondo dominante. Se il cinema industriale italiano – che ha dato prova di non essere industriale – negli ultimi dieci anni ha proposto ruoli femminili di contorno, raccontando donne insicure,nevrotiche, rompiballe, mogli,madri, fidanzatine, è altresì vero che è pratica diffusa concedere la parola alle donne, purché parlino di donne e di affari di donne.
Questo fa sì che all' osservazione i film film realizzati da donne spesso affrontino questioni considerate squisitamente femminili. Non solo: da sempre la dicotomia tra virilità e accudimento porta ad arricchire il malintso che le donne siano per vocazione attratte da storie di marginalità, da esistenze fragili e incerte a cui riservare ascolto, attenzione,uno sguardo paziente e sensibile pronto a co gliere, più di quanto farebbero gli uomini, contorni sfumati e psicologie complesse. Non scordiamoci che per mol ti anni il cinema ritenuto finanziabile ha favorito un immaginario al ribasso in cui non c'era posto per sguardi attenti alle contraddizioni del nostro tempo. Questa restrizione, colpendo tutti, ha sfavorito ancor di più l'accesso delle donne alla professione.
Se una persona si sente ripetere a vita che è distratta, finirà col perdersi le chiavi di casa. Per me è la stessa cosa sulla questione dello sguardo di genere. Esistono le persone, le ci neaste, il linguaggio. Esistono differenze laddove conta la sensibilità, le attitudini personali a mettersi in gioco. È vero che esiste un'attitudine del tutto femminile a non dare nulla per scontato, a interrogarsi, a stare in quella terra di mezzo che è il territorio dalle incertezze: è altresì vero che questo si riverbera nelle narrazioni. Le donne sono meno apodittiche, costruiscono le narrazioni sul dubbio, sulle indefinitezze e, a parer mio, anche questo aspetto appartiene a una cultura che ha fatto di tutto per mettere in discussione la sicurezza delle donne.
Anche la questione dell'accesso ai budget influisce sulle narrazioni: il linguaggio è naturalmente influenzato dalla dimensione produttiva in cui si colloca un film. La consuetudine al minimalismo del cinema delle donne è frutto di questo equivoco.
Negli ultimi dieci anni, progressivamente alla crescita esponenziale del documentario in Italia, esiste un numero crescente di registe donne che si sono fatte le ossa proprio lavorando nel documentario.
E quel cinema che sta, di fatto,cambiando i connotati del panorama italiano e che, complice l'appropriazione deimezzi di produzione e il depauperamento progressivo degli obiettivi del cinema di finzione,ha supplito al deficit di narrazione delnostro paese. È partendo da questa consapevolezza che oggi dobbiamo affrontare la questione dell'acceso delle donne nelle professioni del cinema. E se l'ascolto, l'attenzione, lo sporcarsi le mani, lo stare sul pezzo, I'instancabilità, ìl me[tersi in discussione, sono comuni a molte donne che riescono, nonostante ìl disfavore, a realizzare film, è nelle storie narrate che si gioca la partita. Non è più accettabile che si paili di immaginarìo femminile avendo riguardo di un paradìgma concettuale a senso
uiico. Le donne dì Jane Campion sono fortemente romanzesche, così come epico è il rapporto tra se, il proprio corpo e la natura in cui si fondono bellezza e necessità; è la tensione verso l'assoluto e chi ama davvero il cinema sa che c'è una cosa sola che conta e quella cosa si chiama linguaggio, drammaturgia,
che è sempre espressione di una visione del mondo.
Nei film delle donne è molto evidente che questa visione del mondo rispecchi lo “stare al mondo”, questo perché il concetto è spesso problematico, costringendo a fare i conti con stanche definizioni e stantii ruoli sociali. Non dovrebbe più far notizia che in un film ci sia una protagonista donna; il fatto che ci si leghi a un fortino da difendere dimostra ancora una volta che le donne sono spesso relegate a far da mascotte in una cinematografia coerente con un paese che, su questo fronte, ahimè ha già perso.
A fronte di tutto questo, ricordiamoci che nel nostro paese c'è una cosa che manca, manca per tutti: è la progettualità, la valorizzazione delle esperienze. Il fatto che i film realizzati da donne siano per lo più fondati su narrazioni in cui si fa sottile la differenza tra generi, dispositivi della narrazione, messa in scena e rappresentazione del reale, e che questi film siano portatori di complessità, salta all'occhio proprio per la condizione diffusamente “semplificata” che vive il nostro cinema.