Scienza, femminismo e l’autorità imperfetta

da | Giu 1, 2014 | L'opinione

di Sara Gandini

 

Sono poche le femministe scienziate. Forse perché le femministe non si fidano della scienza e in particolare della medicina e della ricerca scientifica.

Tra femminismo, un filone del femminismo dovrei dire, e la medicina tradizionale ci sono sempre stati incomprensioni e contrasti. E in effetti si tratta di discipline da sempre in mano a uomini che avevano la pretesa di parlare in modo oggettivo e universale, mentre di fatto si dimenticavano di metà della popolazione.

Ma sono poche o sembrano poche? Me lo chiedo perché le femministe scienziate secondo me non raccontano spesso del loro lavoro. Anche se le appassiona, penso ci sia reticenza. E in effetti anch’io non racconto molto, forse perché mi rendo conto che le mie amiche femministe in fondo non si fidano tanto nemmeno di me. E questa loro mancanza di fiducia nella medicina, nella tecnologia e nelle scoperte scientifiche mi preoccupa.

Sicuramente hanno ragione a mantenere alto il senso critico. Il corso che ha preso la medicina, specializzandosi sempre più e mirando troppo al rapporto costo-efficacia, l’ha portata a curare solo gli organi, perdendo di vista la persona nella sua complessità, e a dare un prezzo a ogni minuto trascorso con il paziente, trasformandolo in un cliente. Per non parlare degli scandali come quello della cosiddetta “clinica degli orrori”, la Santa Rita di Milano. La medicina tradizionale ha perso quindi credibilità, portando molte e molti a cercare soluzioni nelle cosiddette medicine alternative, dalla fitoterapia per curare l’influenza all’omeopatia o l’argilla per curare i tumori. Ma anche qui è nato un business pazzesco. Boiron, ad esempio, è una potente multinazionale che è stata capace di portare in tribunale persino Piero Angela perché aveva osato mettere in discussione l’efficacia dell’omeopatia in TV. Lo racconto perché il business e gli scandali delle lobby farmaceutiche sono noti, ma pochi sanno che c’è un mercato crescente che si muove dietro le cosiddette medicine alternative.

Certamente il successo di queste ultime è legato al fatto che puntano molto di più sulla relazione, sull’ascolto e sulla presa in carico della persona nel suo complesso. E il movimento femminista per primo ha criticato fortemente quel sapere specialistico che prescinde dalla relazione. Ma la caduta del patriarcato ha procurato anche delle contraddizioni non facili. Una volta i medici erano figure paterne rassicuranti, cui ci si affidava certi che avrebbero risolto ogni problema. E questo aveva una sua efficacia. Con la fine dell’immaginario patriarcale, e l’arrivo di tante mediche, la medicina sta imparando a farsi carico della complessità, affrontando anche l’incapacità di dare risposte certe e soluzioni definitive, che invece pazienti spaventati da malattie terribili come il tumore ovviamente vorrebbero.

D’altra parte sono nate anche pratiche come la medicina narrativa e negli ospedali c’è una presenza sempre maggiore di counselor, donne che permettono di recuperare la forza dello scambio di parola e quella relazione con il medico/la medica che si stavano perdendo.

Io sono molto grata al femminismo per la pratica delle relazioni e per il senso critico che mi ha insegnato. Credo anche fortemente nell’utilità dell’epidemiologia. Il mio lavoro consiste nella valutazione statistica ed epidemiologica dei metodi, delle interpretazioni dei risultati e delle analisi statistiche di pubblicazioni scientifiche le cui conclusioni appaiono spesso molto diverse una dall’altra e che vanno quindi a loro volta studiate per capire cosa determina i diversi risultati. Sono conosciuta e spesso sono invitata all’estero per i lavori di revisione critica della letteratura scientifica.

Parlo però raramente del mio lavoro, anche perché raccontalo non è semplice. Il linguaggio che usiamo, molto legato a terminologie tecniche e inscindibile dall’inglese, non aiuta. Persino i medici, con cui noi dovremmo lavorare a stretto contatto, faticano a capire l’epidemiologia e la biostatistica e a giudicare il valore dei vari studi che vengono condotti.

Il problema è che vengono pubblicati moltissimi lavori di bassa qualità, che creano confusione e vengono usati in modo strumentale in funzione di interessi privati. In Italia abbiamo avuto il caso Di Bella e poi il caso Stamina, in cui le paure dei pazienti e lo scetticismo nei confronti della medicina sono stati strumentalizzati molto abilmente, per interessi economici o politici.

A me è capitato di scontrarmi con alcune aziende che fabbricano lettini solari, a causa di studi che ne dimostrano la nocività, condotti da me e pubblicati con l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (AIRC), che fa parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). Da questa esperienza ho imparato che è molto facile, per le aziende che hanno interessi economici in gioco, usare uno studio malfatto come argomentazione a sostegno dei loro prodotti, lavorando sulla stampa e puntando sulla scarsità di conoscenze scientifiche. Così i lettini solari vengono presentati come uno strumento per prevenire le scottature, nonostante siano nocivi. Tanto nocivi che, a seguito dei nostri studi, diversi paesi hanno addirittura adottato leggi per vietarne l’uso ai minorenni. Eppure, persino un fattore di rischio tumorale conosciuto e facilmente evitabile come quello della sovraesposizione ai raggi ultravioletti, può essere facilmente aggirato da una lobby potente e, complici la stampa e la moda dell’abbronzatura, i lettini solari sono sempre più usati dai giovani.

Orientarsi nel mare delle pubblicazioni scientifiche in effetti è difficile, per questo l’AIRC organizza gruppi di esperti indipendenti che discutono e cercano di arrivare a un punto comune, rivedendo tutta l’evidenza scientifica in senso critico. A me è capitato più volte di essere invitata e ho potuto verificare che il livello di competenza, serietà e precauzione dell’AIRC è altissimo.

Così è stato anche quando l’AIRC si è occupata dei rischi da uso dei cellulari. Hanno invitato trentuno fra i massimi esperti al mondo da quattordici paesi diversi per valutare il rischio di sviluppare tumori usando i telefoni cellulari, o per meglio dire, il rischio dovuto all’esposizione a campi elettromagnetici a radiofrequenza, quelli provocati dalle radiazioni non ionizzanti emesse dai telefoni senza fili, ma anche dai segnali radio-televisivi, dai radar e dai forni a microonde.

Questi esperti hanno prima di tutto dimostrato che l’incidenza dei tumori cerebrali non è aumentata negli ultimi anni: se le radiazioni elettromagnetiche a radiofrequenza fossero un potente cancerogeno, dopo circa venticinque anni dall’inizio della diffusione dei telefoni cellulari e con circa 5 miliardi di utenti, dovremmo aver già registrato un aumento sensibile. In più, l’AIRC ha coordinato Interphone, uno studio enorme durato dieci anni, che ha preso in esame 10.000 intervistati e circa 5.000 casi di tumori cerebrali in 13 paesi. Questo studio non ha mostrato nessuna evidenza che l’uso dei telefoni cellulari possa indurre lo sviluppo di tumori cerebrali. E sugli animali i risultati sono stati simili. Negli ultimi quindici anni, almeno sei studi indipendenti hanno analizzato gli effetti dell’esposizione cronica alle radiazioni non ionizzanti senza individuare un rischio aumentato per i tumori cerebrali. In generale, i ricercatori concordano sul fatto che non ci sono prove convincenti a favore di associazioni dirette (causali) tra tumori infantili ed esposizioni a campi elettromagnetici.

La sintesi è stata quindi rassicurante, perché le ricerche epidemiologiche e anche gli studi sugli animali e sulle cellule in vitro non hanno provato un nesso di causa ed effetto fra l’uso dei telefoni cellulari e i tumori. Ma nella scienza, soprattutto in epidemiologia, non trovare prove non equivale a dire che il rischio è nullo: potrebbe anche dire che i metodi attualmente a disposizione non siano sufficienti a misurare un dato tipo di rischio. Per questo, anche se l’OMS ha concluso che non c’è nessuna evidenza convincente che l’esposizione a radiofrequenze abbrevi la durata della vita né che induca o favorisca il cancro, l’AIRC ha classificato i campi elettromagnetici a radiofrequenza come “possibilmente cancerogeni per gli esseri umani” (gruppo 2B). Sembra una contraddizione con quanto detto finora, ma non lo è: “possibili” (categoria 2B) non vuole dire né “certi” (categoria 1), né “probabili” (categoria 2A) e risponde solo a un principio di precauzione, visto che misurare precisamente l’esposizione a questo tipo di onde non è banale.

Per chiarire, nel gruppo 1 sono inclusi i fattori con evidenza chiara di cancerogenicità e tra questi ad esempio c’è l’esposizione ai raggi ultravioletti, sia il sole che lettini solari, su cui io ho pubblicato diverse meta-analisi che dimostravano l’aumentato rischio di tumore alla pelle. Tuttavia non mi verrebbe mai in mente di dire che non ci si deve esporre al sole, perché il sole può fare anche bene, all’umore oltre che alla salute fisica. La questione è quindi sempre come ci si espone.

La categoria 2B indica che il rischio è molto basso e include molte altre centinaia di sostanze, fra cui il caffè e i e sottaceti, per le quali la possibilità o meno di causare una specifica forma di tumore è assai dubbia. In pratica, sono in questa lista tutte le sostanze sulle quali sono state fatte sperimentazioni ad altissimi dosaggi in laboratorio, ma per le quali non c’è al momento alcuna prova di pericolosità per l’essere umano alle concentrazioni comunemente assunte o presenti nell’ambiente. Infatti le radiofrequenze dei telefonini non possono produrre radiazioni ionizzanti e non hanno la capacità di modificare direttamente il DNA, a differenza delle radiazioni ionizzanti (come i raggi X o ultravioletti, quindi i nostri citati lettini solari e le scottature). “La quantità di energia trasportata dalle onde radio di un telefonino e di altri dispositivi domestici (televisori, Wi-Fi, cordless etc…) è infinitesima rispetto a quella necessaria a provocare la ionizzazione.”

La ricerca scientifica in ogni caso ha continuato a lavorare, cercando di studiare queste esposizioni che si modificano nel tempo con le nuove tecnologie, e uno degli studi più importanti, condotto in Danimarca su 420 mila persone, arriva addirittura a dire che chi ha usato il cellulare per tanti anni si è ammalato di meno rispetto a chi non lo possedeva. E altri due studi recenti americani vanno nella stessa direzione. Però la stampa italiana non ha dedicato a questi studi nemmeno una riga, probabilmente perché un “nulla da segnalare” non fa notizia.

Ulteriori studi su esposizione a campi elettromagnetici e aumento del rischio di cancro sono ancora in corso, soprattutto per valutare eventuali effetti a lungo termine, perché avere certezze in questo ambito è molto difficile.

Ma l’unica strada possibile è quella di affidarsi alla forza di un nuovo tipo di autorità, meno paternalista ma più consapevole dei limiti, della complessità e delle potenzialità della scienza, della medicina e della tecnologia. Fortunatamente qualche buona notizia dall’epidemiologia ogni tanto arriva. Il Rapporto Istat/Cnel ha pubblicato recentemente i dati sulla vita media, mostrando che continua ad aumentare, e l’Italia è tra i paesi più longevi d’Europa. Negli ultimi dieci anni in Italia la vita media è aumentata di 2 anni e si è allungata grazie ad una riduzione della mortalità a tutte le età.

Se c’è una battaglia quindi che vale la pena combattere non è quella contro il cosiddetto inquinamento elettromagnetico, ma quella per l’amore per la scienza, proprio perché il suo fascino e la sua forza sta nell’essere “imperfetta”. La famosa “teoria del complotto” secondo cui esisterebbe una cura definitiva per il cancro, ma che per qualche ragione viene tenuta nascosta, nasce dall’inconscia e comprensibile difficoltà ad accettare che non vi possa essere un rimedio unico e definitivo contro una malattia estremamente eterogenea e spesso mortale. Non è facile accettare che la scienza e la medicina non abbiano sempre soluzioni certe e spiegazioni definitive, e non sempre nella medicina si riescono ad instaurare relazioni in cui ci si sente presi in carico, in cui passa fiducia. Ma sulle “relazioni d’autorità imperfette”, si gioca una partita molto importante, che non riguarda solo la salute, e non possiamo permetterci di perdere fiducia nella forza di queste relazioni.

Punto di vista, Libreria delle Donne di Milano