Sì al ricorso del padre autoritario: ai fini del delitto ex articolo 572 Cp non serve uno specifico programma criminoso ma è necessaria la consapevolezza di persistere in un’attività vessatoria – Sentenza, 7 aprile 2017
Episodi di ubriachezza, metodi severi di disciplina imposti ai figli, tanto da farli vivere in uno stato di timore, non bastano a far scattare il reato di maltrattamenti in famiglia a carico del genitore se non si prova il dolo abituale. È quanto stabilisce la Cassazione con la sentenza 17574/17, depositata il 6 aprile dalla sesta sezione penale.
È annullata con rinvio la sentenza della Corte di appello che assolveva un uomo dai reati di violenza sessuale e danneggiamento, ma lo condannava per maltrattamenti in famiglia a un anno e 8 mesi di carcere e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili. A pesare sulla decisione del giudice è la sentenza del tribunale che ricostruisce i rapporti in famiglia. Il quadro delineato è quello di un padre assai severo e autoritario, intransigente e con problemi di comunicazione coi figli, che riesce comunque a «imporre regole di vita» nonostante gli atteggiamenti aggressivi.
Il tribunale, tuttavia, osservava che il clima in famiglia non era sempre teso e non c’era alcuna volontà da parte dell’uomo di persistere in un’attività vessatoria, considerato che l’imputato teneva molto all’educazione dei figli e, seppur con metodi discutibili, li aiutava nel rendimento scolastico e nelle relazioni con i coetanei. La Corte di appello, invece, puntava sul fatto che moglie e prole vivevano in uno stato di timore per via dei comportamenti collerici del padre, spesso gratuiti e dovuti allo stato di ubriachezza. Ma, come evidenzia la Corte suprema, il giudice di seconde cure non ha motivato sulla sussistenza del dolo abituale, necessario elemento psicologico che caratterizza il reato previsto dall’articolo 572 Cp. E si è limitato a richiamare «il generico criterio per il quale non è necessario uno specifico programma criminoso, ma è sufficiente la consapevolezza di persistere in un’attività vessatoria diretta a ledere la personalità della vittima senza argomentare circa la coscienza e la volontà dell’imputato di persistere in un’attività vessatoria». Il collegio, dunque, annulla con rinvio la sentenza per un nuovo giudizio.