Non so bene – in questi anni di occupazione dello spazio pubblico da parte del perverso intreccio denaro, sesso e potere – quando ho pensato che sarebbe stato utile riportare all’attenzione comune il libro anticipatore di Roberta Tatafiore dedicato alla prostituzione. Di sicuro non è stato nello scrutare il viso drammatico di Patrizia D’Addario, la donna a cui si deve nel 2009 l’introduzione nel lessico quotidiano di uno dei termini correnti nel nuovo mercato del sesso: escort, parola che designa una delle forme della «prostituzione al tempo del post-fordismo».2 Neppure è stato alle prime avvisaglie del caso«Ruby rubacuori», nickname di sapore da bordello quasi letterario, appiccicato a Karima el Marhoug, ragazza migrante di seconda generazione di pericolosa bellezza, usato dai media con noncuranza, intrusione nella scena pubblica dell’intimità spersonalizzata e promiscua che si ha con la prostituta.
So che nel crescente furore femminile, che ha trovato la massima espressione pubblica nella grande manifestazione del 13 febbraio 2011, promossa dal comitato Se non ora quando, ho visto – anche – profilarsi i contorni di una storia antica quanto i movimenti di emancipazione delle donne: il desiderio, anzi la rivendicazione, di donne che non si prostituiscono e cercano la propria autonomia, di distinguersi da quelle che la prostituzione la praticano. L’interesse, ai miei occhi, è che sono state soprattutto ragazze cresciute negli anni ottanta-novanta – cioè l’epoca segnata in Italia dall’introduzione delle tv private e dal contemporaneo diffondersi ovunque nel mondo della cultura del consumo – a manifestare questi sentimenti. Come se la confusione generata dalla contaminazione tra spazio privato e spazio pubblico da parte di un uomo che ha compensato favori anche) con carriere politiche,3 abbia obbligato chi non usa il corpo per fare carriera e ricavarne vantaggi economici a distinzioni nette, quasi tagliate con l’accetta, in relazione a coetanee che così spudoratamente esibiscono scelte opposte.
Movimento forse necessario, capisco, per salvaguardare e dare senso alla rivendicazione della propria integrità interiore. Eppure estremamente confuso, ai miei occhi, proprio riguardo al sesso, la dignità, la libertà delle donne. Come se l’indiscutibile libertà sessuale, disponibile ora fin dall’adolescenza alle donne nella parte del mondo in cui ci troviamo a vivere, le abbia rese meno agguerrite, come se gli esiti imprevisti di una libertà cara a tutte costituissero una minaccia. Il che contiene qualche verità, se si considera che all’occidentale venir meno di proibizioni e inibizioni che delimitavano il corpo delle donne corrisponde l’assenza di un contemporaneo discorso femminile del sesso…È un’ipotesi di lavoro, che non pretende di essere la verità assoluta.
Nulla più del discorso del sesso segna il salto tra le generazioni femminili, anche nelle incomprensioni reciproche. Le audacie del femminismo d’antan, di cui oggi è di moda decretare il fallimento, sembrano dividere, più che unire. «È colpa vostra» mi ha detto qualche tempo fa una giovanissima amica occupata precaria nell’editoria «ci avete fatto illudere che fosse possibile lavorare senza trovarsi di fronte a ricatti sessuali.» E proprio qui, nel disagio che intravedo nell’emergente e diffusa rabbia femminile, si colloca l’urgenza di rileggere insieme le parole lucide di Sesso al lavoro.
Il reportage intellettuale di Roberta Tatafiore nei meandri del mercato del sesso non è oggi meno provocatorio di quando è uscito nel 1994. Prima di tutto per la scelta di adottare il punto di vista delle sex workers, come chi opera nel mercato del sesso ha scelto di chiamarsi. Un pugno nello stomaco, nella piccola Italia che si godeva la liberazione dalle censure non meno di oggi, epoca di allarmi sociali che collocano la prostituzione nelle caselle speculari o di ordine pubblico-criminalità o di vittime della tratta, non certo di protagoniste della propria autodeterminazione. Per chiarire, ri-proporre in questo contesto una riflessione sul sesso commerciale non significa pensare che così si esaurisca ogni possibile discorso sulla sessualità, neppure si tratta di emettere impropri giudizi, le sentenze competono solo alla conclusione dei processi in corso. Neppure interessa argomentare se le ragazze dell’Olgettina sono riprovevoli perché hanno usato il proprio corpo per ottenere denaro o altro, interessa invece che la diagnosi della crisi della prostituzione degli anni novanta elaborata da Tatafiore offre strumenti per leggere l’alienazione di sessualità e sentimenti che ci invade. Sono saltate le zone di confine, non ci sono più barriere tra i diversi soggetti e pratiche sessuali, commerciali e no.
Regole e ipocrisia che all’insegna della morale e delle convenienze sociali nettamente dividevano pubblico e privato, vizi e virtù, con tutti gli incroci possibili, non hanno più nessuna forza, né reale né simbolica. Per paradosso, uno dei grimaldelli è la libertà del sesso, il venir meno dello stigma nei confronti delle donne che lo praticano al di fuori del matrimonio. Il dilagare nello spazio pubblico dei divertimenti nelle case dell’ex premier, di cui tutti – complici o indignati – siamo stati spettatori, ne sono forse il sintomo più vistoso, non la causa.
In Sesso al lavoro, Roberta Tatafiore, nel cuore degli anni novanta, con sguardo lungo e aperto mette in luce gli snodi significativi di una crisi che solo ora è visibile agli occhi. Da cronista della prostituzione, fornisce chiavi di lettura per comprendere che in crisi non è uno speciale settore ai margini della vita sociale, se una crisi bisogna registrare è della la passione sessuale, del desiderio. Di cui il mercato dei corpi è insieme sintomo, causa, specchio, elemento di contagio e diffusione. Il tutto plasmato, alimentato, dilatato da immagini e comunicazioni che corrono via internet. La prostituzione che va in crisi, nel racconto di Tatafiore, è quella che si era accomodata tra strada e appartamenti trovando sempre più autonomia, meno sfruttatori e più guadagni diretti delle donne. Globalizzazione, nuove figure sessuali, nuovi desideri e pratiche sessuali, non più riservate a élite sociali ma a disposizione di chiunque, sono già tutte lì, dispiegate in unico mercato in trasformazione. Una delle donne intervistate da Roberta, la berlinese Lisa, lo dice con chiarezza: «Un giorno ci sveglieremo e ci accorgeremo che le prostitute si trovano nella stessa situazione in cui oggi si trovano gli operai siderurgici». E Roberta: «Per analogia, come è finita l’epoca dell’operaio massa, l’epoca salariale» scrive citando André Gorz «così è finita l’epoca della prostituta di massa». Al contrario, il punto più fragile dei ragionamenti di Roberta è quello che le sembrava acquisito per sempre: «Non c’è più la possibilità, per nessuna donna non prostituta, anche se lo volesse, di parlare e agire in nome e per conto delle prostitute» sostiene, forte sia dell’esperienza di direzione di Lucciola, la rivista del Comitato delle prostitute pubblicata negli anni ottanta, sia dei rapporti con i movimenti internazionali dei diritti delle sex workers. Una fragilità, per non dire una sconfitta, di cui lei stessa era consapevole, come risulta da ricerche e scritti successivi, quando constatava che non c’è stata l’equità e libertà per tutte che lei immaginava, quello che le sembrava «un desiderio semplice e naturale, e per questo destinato a realizzarsi. Non è andata così, e oggi valuto con un certo pessimismo la possibilità di rilanciare, qui da noi, la prostituzione come un tema libertario, per tutti». È la soggettività politica, sono i diritti a essere entrati in difficoltà, in paesi che in cerca di sicurezza e ordine adottano misure sempre più restrittive, senza ascoltare le dirette interessate, che pure sono sempre più organizzate.
Allora, un libro pungente. Nella lingua della cronista, come Roberta si definisce, mutuata dal proprio oggetto di osservazione: «Il linguaggio della prostituzione coincide con il linguaggio del mercato. E il mercato, lo sappiamo, definisce merce, offerta, domanda, congiuntura: gli ingranaggi di un meccanismo che fa uso anche di corpi e anime, che omologa in una pretesa di parità rapporti umani disuguali e che nasconde sotto il termine di reciproca convenienza l’esercizio di sfruttamento». Pungente nella messa a fuoco di conflitti attualissimi tra donne: tra non prostitute e prostitute, e soprattutto tra femministe – e femministe e prostitute – a proposito del destino della prostituzione, ovvero tra abolizionismo e legalizzazione, tra il salvare le donne dal mercato e la salvaguardia dei loro diritti. Insomma, una lettura non conformista, che dà una bella scrollata a convinzioni e pregiudizi, che obbliga a liberare lo sguardo, che offre oggi possibilità di nuove interpretazioni.
Nel dire che la responsabilità nel seguire alcune piste attuali a partire da Sesso al lavoro è tutta mia, voglio ricordare il piacere di essere stata testimone dell’elaborazione di questo libro, dire che nel tempo non si allevia la tristezza di un’amicizia violentemente interrotta.