Silvio Anastasio, ginecologo

da | Apr 9, 2013 | Interviste/Video

Abbandonati, impoveriti, superati?  Da tempo al centro di richieste di riqualificazione, ma anche di roventi polemiche politiche –  com’è successo nel Lazio per la proposta di legge Tarzia, che prevedeva di finanziare associazioni private pro-life -, i consultori familiari sono in prima fila tra le vittime dei tagli al welfare territoriale: erano 2097 nel 2007, e due anni dopo, nel 2009, ne risultavano 1911. Questi i dati contenuti nell’ultima relazione del ministero della salute, dell’anno 2010: da allora, più niente. Cosa succede ai consultori, e cosa si può fare per rilanciarli, a quasi trent’anni dalla legge che li ha istituiti? InGenere.it ha posto la questione a una serie di esperte ed esperti, portatori di pratiche e riflessioni sull’argomento. Cominciamo con un’intervista a Silvio Anastasio, ginecologo alla clinica ostetrica universitaria di Bari dal 1973 al 2005, e da allora primario del reparto di ginecologia-ostetricia dell’ospedale Madonna delle Grazie di Matera.

Qual è lo stato attuale dei consultori?

Cominciamo con un dato di fatto: la legge che ha istituito i consultori prevedeva che vi fossero diverse figure professionali (dal ginecologo all’educatore, dall’assistente sociale allo psicologo), cosa che purtroppo succede in pochi casi. Probabilmente ci sono differenze tra nord e sud, ma per quello che ho potuto osservare direttamente tra Basilicata e Puglia, e per la Calabria e la Campania, di cui ho informazioni indirette ma attendibili, sono rare le strutture in cui operi un’equipe completa, con tutte le figure professionali previste. Inoltre non è stato mai fatto quel lavoro di messa in comune delle conoscenze e delle pratiche, come doveva essere il consultorio nell’idea iniziale.

Qual era la loro concezione originaria?

Il consultorio doveva essere un posto aperto e rivolto all’esterno, capace di portare fuori, nel territorio, il sapere. Doveva essere in grado di guardarsi attorno per intercettare e rispondere ai bisogni di salute, di capire i cambiamenti della società per poi decidere quali interventi fare e come. Inoltre gli operatori non dovevano essere semplici specialisti di qualcosa, ma figure in grado di agire in sinergia.

Com’è andata invece?

Questi propositi non sono stati mai realizzati, di sicuro mai pienamente. Per esempio la figura del counselor, o consulente, non è mai stata sviluppata. Non è mai stata realizzata una metodologia di intervento all’esterno, tra le persone. E quando una struttura non risponde ai bisogni per cui è stata creata finisce per rispondere solo alle proprie esigenze, cioè finisce per avere un atteggiamento corporativo. Il consultorio è diventato un posto utile per lo più a chi ci lavora, e non all’utenza. Oggi la popolazione è composta da una varietà di etnie, tanto per citare un cambiamento evidente, e cosa hanno fatto i consultori per attrezzarsi di fronte alla novità? Oppure chiediamoci: fanno forse informazione nelle scuole? Non mi risulta. Il consultorio è rimasto per lo più un luogo chiuso, che non ha visibilità, e infatti ci vanno o i gruppi più marginali, o le persone molto informate….bisognerebbe provare a contare quante sono le donne e le famiglie che entrano in contatto con queste strutture. Al loro interno non si lavora in gruppo, non si fa rete, non ci sono sistemi di verifica, non hanno relazione con le strutture ospedaliere, e se c’è è conflittuale.

Secondo lei cosa ha impedito uno sviluppo in questo senso?

Il mancato inserimento nel territorio, insieme a altri fenomeni sociali, soprattutto riguardo la gravidanza e come la si segue, la sua progressiva medicalizzazione, l’arrivo di strumenti sofisticati come l’ecografia: tutto ciò ha accentuato la distanza tra il consultorio familiare e i bisogni della popolazione. Un numero sempre più grande di donne ha deciso di far seguire le proprie gravidanze, per altro sempre meno frequenti e sempre più costose, dal suo medico. Questa privatizzazione, questa marcata personalizzazione dell’assistenza, ha determinato una serie fenomeni, tra cui l’impoverimento della funzione dei consultori. 

Dunque c’è stato un abbandono di massa?

Le donne e delle loro organizzazioni sembrano aver avuto altre priorità in questi anni. L’attenzione degli anni Settanta non si è mantenuta e non è stata strutturata in modo da diventare attenzione costante verso il mondo dei servizi. Questo avrà le sue ragioni, la società e le priorità cambiano, ma certo una disattenzione globale ha favorito una certa autoreferenzialità dei servizi.

Come si potrebbe intervenire per risolvere questi problemi?

È molto difficile immaginare soluzione spontanea del problema. A mio parere le possibilità sono due: o c’è una radicale ristrutturazione che parta dall’andare a vedere molto da vicino, in ogni singola struttura, cosa funziona e cosa no, per poi ristabilire delle priorità, capire cosa si vuole che i consultori facciano, e metterli in condizione di farlo. Oppure si realizza un movimento dal basso: le persone, le famiglie, donne, uomini e giovani trovano la forza di reclamare quello che gli spetta, perché, come dicono gli americani, I’ve paid for it. E cominciano a non tollerare più di aspettare, di trovare le porte chiuse, di essere rinviati, di non avere la contraccezione di emergenza eccetera.

Da dove partire per un’eventuale “ricostruzione”?

Innanzi tutto bisogna darsi degli obiettivi ragionevoli e misurabili, e poi capire cosa cambiare e come. Alcuni interventi di messa a punto consultori sono stati fatti, individuando i criteri di accorpamento, le funzioni da svolgere e verificando i compiti. Per esempio in Puglia è stato fatto da Antonio Masciandaro e Rosa Guagliardo: un progetto che ha avuto vita difficile, ma che ha prodotto dei risultati. Inoltre sarebbe interessante capire se si riesce a creare, per il futuro, una figura professionale capace di muoversi indifferentemente tra ospedale, consultorio, ambulatorio, territorio eccetera. Figura che sviluppa una serie di abilità e le pratica in diversi contesti: una cosa è fare il pronto soccorso in ospedale, e una cosa è parlare a un gruppo di donne in un percorso di accompagnamento alla nascita.

Ci sono modelli o esperienze interessanti, che potrebbero essere osservati ed estesi?

Per esempio alcuni ospedali inglesi in cui le donne prima del parto vanno in ospedale e incontrano le ostetriche che le seguiranno. Un modello interessante che però richiede che le ostetriche siano delle figure qualificate e autonome. Potrebbe essere replicato anche in Italia ma è dura.

Perché?

Per conflitto di interessi. E per la difficoltà che possono avere le ostetriche, almeno quelle di una certa generazione, ad assumersi delle responsabilità importanti. In Inghilterra ci sono dei posti guidati dalle ostetriche in cui si va a partorire, alcuni gemellati con ospedali e altri no. Delle donne seguite in queste unità un 30% viene poi trasferito in ospedale. Sono realtà complesse, la presenza di figure in grado di muoversi tra questi diversi “mondi” facilita, e evita la formazione di quei cristalli culturali che fanno sì che ognuno si muova solo nel suo “piccolo mondo antico”.

Lei prima accennava ai rifiuti della contraccezione di emergenza. I dati, altissimi, degli obiettori di coscienza sono noti da tempo.

I medici che attualmente garantiscono l’applicazione della 194 non solo sono sempre meno, ma stanno progressivamente invecchiando, si tratta della vecchia guardia, non c’è il ricambio generazionale. Ci sono voci ricorrenti di ripresa dell’abortività clandestina. Io non sono in grado di verificare se questo è vero, ma quando in una struttura il 95% dei ginecologi è obiettore, in concreto come si fa a garantire il servizio, e con che qualità? Credo che la risposta sia scontata. A questo punto è pensabile che una donna appena appena sveglia scelga di spostarsi lei. Io non studio più il fenomeno da tempo, ma quando anni fa lo abbiamo fatto insieme ad altri colleghi la migrazione era evidente, c’erano due o tre case di cura convenzionate nella regione Puglia che facevano il pieno e hanno risolto i loro problemi economici con le interruzioni di gravidanza in convenzione.

di Gina Pavone
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