Violenza sulle donne: formazione sulla “vittimizzazione secondaria” per avvocati e magistrati

da | Apr 23, 2022 | Donne e violenza di genere

di Francesco Machina Grifeo

 

 

È quanto emerge dalla Relazione “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale” approvata ieri dalla Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio e la violenza di genere.

La Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio e la violenza di genere ha approvato ieri all’unanimità la Relazione su “La vittimizzazione secondaria delle donne che subiscono violenza e dei loro figli nei procedimenti che disciplinano l’affidamento e la responsabilità genitoriale”.

“È una relazione – spiega la senatrice del Pd Valeria Valente, presidente della Commissione di Femminicidio – che giunge al termine dell’esame di un campione rappresentativo costituito da circa 1.500 fascicoli processuali di separazione con affido di minori e dei 40 casi in cui le madri hanno denunciato la sottrazione dei figli”.

“Ciò che emerge dalla relazione – continua Valente – è che donne e bambini vittime di violenza domestica possono subire ulteriore vittimizzazione nel corso dei procedimenti giudiziari di separazione. Ciò conferma che occorre maggiore formazione da parte di tutti gli operatori per riconoscere la violenza domestica e una più ampia correlazione tra cause civili per separazione e penali per violenza domestica”.

E infatti il testo dedica un paragrafo proprio alla “Formazione specialistica in materia di violenza domestica”, affermando che “appare fondamentale incrementare la formazione di tutti gli operatori sul tema della violenza domestica”. Occorrerebbe dunque prevedere: una specializzazione obbligatoria di tutti gli attori istituzionali coinvolti: forze dell’ordine, magistrati, avvocati, consulenti, operatori dei servizi sociali con corsi di formazione obbligatoria sugli indici di riconoscimento della violenza domestica e sulla normativa nazionale e sovranazionale in materia. Ma anche la formazione di liste di professionisti specializzati cui attingere in presenza di allegazioni di violenza.

E infine percorsi di formazione condivisa tra magistratura forze dell’ordine, avvocatura, servizi sociali, servizi sanitari, centri e associazioni anti violenza, anche per la diffusione di conoscenze condivise per l’individuazione degli indici di violenza domestica.

Si perché dalla Relazione emerge la mancata capacità dell’ordinamento e soprattutto degli operatori della giustizia, avvocati compresi, di individuare la violenza in comportamenti considerati – e sovente descritti dalla stessa vittima – come di mero conflitto familiare. Una deriva che produce “danni rilevanti, non solo nei confronti della donna che ha subito la violenza … ma anche nei confronti dei minori esposti alle medesime condotte violente”.

Così per esempio accade che già al momento della proposizione della domanda di affidamento dei figli minori “gli stessi difensori della vittima, nell’atto introduttivo del giudizio, pur descrivendo condotte violente, le minimizzino ovvero le riconducano nell’alveo del conflitto tra coniugi o tra partner, non cogliendo le ricadute negative che queste condotte hanno avuto sui minori, giungendo quindi in molti casi a chiedere che venga disposto l’affidamento condiviso del figlio”.

Dall’analisi dei fascicoli poi viene fuori una incapacità degli attori coinvolti nelle separazioni giudiziali con affidamento di minori (magistrati, avvocati, consulenti e servizi) di “riconoscere la violenza, di considerarla un discrimine ai fini dell’affido e della domiciliazione dei figli minori, di comprendere se è presente una specifica formazione in materia di violenza di genere, di accertare quanto venga rispettata in concreto la Convenzione di Istanbul che, ratificata con la legge n. 77/2013, è entrata a pieno titolo nel tessuto normativo italiano”.

E proprio gli stereotipi di genere “purtroppo ancora presenti nella cultura di giudici, avvocati, consulenti tecnici e assistenti sociali” rendendo il percorso della vittima ancor più difficoltoso. “Quando sono presenti stereotipi molto radicati – si legge nella Relazione -, la violenza contro le donne non viene riconosciuta”.

“La storia della violenza di genere, all’interno dei Tribunali – prosegue il testo -, è anche questo: è la storia di un non vedere, un non sentire, un non riconoscere. E’ anche la storia di una ricerca lessicale, molto faticosa, per non nominare la violenza, per trovare “parole altre” che spesso determinano una perdita di significato delle singole vicende: ecco che, dunque, la violenza diviene conflitto, la sindrome di alienazione parentale diventa violazione del diritto all’accesso, le madri, inizialmente qualificate come “alienanti”, oggi sono definite “simbiotiche”, la bigenitorialità cessa di essere un diritto del minore – e come tale concorrente con tutti gli altri diritti che lo riguardano come salute, cura, sicurezza – per assurgere a diritto assoluto della sfera adulta”.

Un complesso di ragioni che si traduce nel fatto che “molte donne fanno più fatica a denunciare che a interrompere la relazione e la convivenza e preferiscono chiedere agli avvocati di depositare in tempi rapidi un ricorso consensuale anziché intraprendere un percorso penale”. Le denunce dunque continuano a “fare paura” e non sempre vengono viste come mezzi di tutela, le donne provano ancora un senso di colpa nel denunciare e “sono terrorizzate dal processo penale, ma anche dalle conseguenze che questo può avere sui propri compagni violenti”. Vivono l’ambivalenza che nasce dalla contemporanea presenza della necessità di proteggersi e dalla necessità di salvare (anche dentro di sé) quanto di “buono” c’è stato nella relazione evitando le conseguenze più gravi anche per i soggetti violenti che sono i padri dei loro figli.

Per tacere del costo dei professionisti che le madri spesso più deboli economicamente devono sostenere per portare avanti l’azione giudiziaria (avvocati, psicologi, consulenti di parte). Inoltre, risultando spesso soccombenti in molti procedimenti, le madri devono sostenere anche gli oneri maggiori per le spese processuali quando non ne è prevista la compensazione.

Il Sole 24 Ore, 22 aprile 2022