di Alberto Leiss, pubblicatosul Manifesto del 22/05/2017
Ho visto solo qualche giorno fa – in una bella foto sull’inserto Io donna, del Corriere della sera – la maglietta firmata Dior con la scritta «we should all be feminist».
Titolo del libretto di Chimamanda Ngozi Adichie, tradotto in Italia da Einaudi col titolo «Dovremmo tutti essere femministi».
La notizia, devo riconoscere, è vecchia. Se ne è parlato quando l’italiana Maria Grazia Chiuri, prima donna alla guida di Dior, ha inventato la t-shirt con la scritta, inserendola nella collezione primavera-estate 2017. Un capo che, nella versione originale, costa circa 500 euro. Ma la moda «di classe» si è difesa destinando buona parte dei proventi a varie istituzioni che si occupano dei diritti e dei bisogni delle donne.
E poi il gusto e l’anarchia del mercato hanno fatto il resto, moltiplicando le magliette più o meno false con lo stesso slogan o altre scritte inneggianti al potere e alla forza delle donne.
Attrici famose e cittadine «comuni» le hanno indossate nelle marce americane contro Trump.
C’è stato un effetto di riverbero – leggo sul Messaggero del 3 marzo in un articolo di Costanza Ignazi – sulle sfilate della New York Fashion Week, con molti modelli griffati con omaggi alle lotte e ai diritti delle donne, mentre Missoni a Milano ha fatto sfilare tutti con il Pussyhat rosa (il cappellino con le orecchiette da gattina) simbolo della protesta Usa.
Ho notato la cosa forse perché reduce da occasioni diverse (un incontro alla Libreria delle donne di Milano sulla «differenza maschile», un convegno a Roma sulla violenza maschile, la presentazione di un libro alla Libreria delle ragazze di Grosseto) in cui di femminismo si è parlato tra donne e uomini.
I quali uomini, specialmente se giovani (ma non solo) cominciano a proclamarsi «femministi» senza i pudori e gli imbarazzi di una volta (ho sempre pensato che fosse un po’ ridicolo e inopportuno definirsi tali per i maschi, anche se convinti della giustezza del femminismo: forse mi sbagliavo).
Ci sono anche ragazzi, nel movimento Non una di Meno, che si dichiarano in modo più provocatorio «frocie femministe». Sottolineando il desiderio di affrancarsi da qualunque stereotipo di genere imposto da normatività esterne al proprio corpo e alla propria mente.
Che queste tendenze siano, almeno in parte, clamorosamente rilanciate dalle signore – e dai signori – dell’alta moda sarà di più di una curiosità consumistica?
Alla fine dell’800 Georg Simmel già dedicava profonda attenzione alla moda, osservando come essa sia «imitazione di un modello dato» che «appaga il bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi».
Che significa dunque la diffusione «virale» di quelle scritte sui corpi? E’ la capacità del neoliberismo di sussumere anche il taglio radicale del femminismo? O la forza egemonica di una politica che ha già cambiato il mondo e che potrebbe continuare a farlo coinvolgendo anche l’altra metà del genere umano?
In un articolo sul mainstream «politicamente corretto» – riguarda forse anche il caso in oggetto? – Giorgio Mascitelli (Il paralogismo di Coco, su Alfabeta2) consiglia di reagire con «la capacità di porre al centro ciò che non è dicibile nel discorso politicamente corretto».
Ci viene assegnato conformisticamente questo tema? Ribaltiamolo nella sua potenza di senso sovversiva, liberatrice!